Takeshi Miike mette in cattedra il fascino del male

Presentato alla Festa internazionale del film di Roma l’ultimo lavoro del cineasta giapponese tratto dal popolare romanzo di Yusuke Kishi "La lezione del diavolo". Un noir claustrofobico arricchito da una mirabile fotografia e da citazioni a metà strada tra la letteratura europea e il genere americano

Takeshi Miike mette in cattedra il fascino del male

Il primo film in concorso della settima edizione del Festival del cinema di Roma è un pugno nello stomaco. Non tanto per i litri (ettolitri?) di sangue che macchiano copiosamente il finale del film, in un crescendo di orrore ben stilizzato. Quanto perché è immediato, per lo spettatore, l’aggancio a una realtà che tutti vorremmo lasciarci al più presto alle spalle, nell’angolo più recondito della memoria collettiva. Stiamo parlando del terribile atto terroristico che ha avuto come teatro l’isola norvegese di Utoya dove, il 22 luglio del 2011, Anders Breivik ha ucciso sessantanove ragazzi lì riuniti per un meeting della Federazione giovanile del partito socialista.

Il film di Miike ci trasporta in Giappone. All’interno di una delle più prestigiose scuole private nipponiche. Qui Seiji Hasumi (Hideaki Ito) dà mostra di essere un professore modello, popolare tra gli studenti e stimato dagli altri colleghi. Eppure qualcosa di indecifrabile e minaccioso si cela dietro la brillante reputazione del docente. Hasumi risolve efficacemente un problema dopo l’altro: le molestie sessuali di un insegnante verso una studentessa, l’imbroglio di un piccolo gruppo di hacker in erba e alcuni episodi di bullismo. Tutti si fidano di lui che comincia così a prendere il sopravvento nella scuola, ma qualcosa nei suoi modi non torna. Un collega invidioso inizia a indagare sul suo passato riuscendo a collegare uno dopo l’altro episodi nascosti dai quali emerge una sconcertante e pericolosa verità cui faranno seguito avvenimenti sempre più inquietanti che coinvolgeranno studenti e insegnati. Sino al finale claustrofobico e drammatico. Un finale che, come abbiamo detto, riporta alla mente la verità della cronaca di questi anni. Solo che il film nasce ben prima di quanto accaduto in Norvegia. E come al solito ci troviamo riconoscere che la realtà supera la fantasia. Già, perché il film, ultima sfida di Takeshi Miike, uno dei più originali, prolifici e promettenti cineasti giapponesi, prende le mosse da un popolarissimo romanzo di Yûsuke Kishi. Una sorta Stephen King del Sol Levante, che proprio con l’omonimo romanzo ha vinto nel 2010 in patria tutti i premi disponibili.

Takeshi Miike è uno dei cineasti più apprezzati dagli organizzatori dei festival europei. Nel 2010 «Tredici assassini» è, infatti, passato in concorso alla Mostra di Venezia e nel 2011 «Hara-Kiri - Death of A Samurai» è stato lungamente applaudito a Cannes. La sua grande passione per la sperimentazione e per la ricerca di soluzioni stilistiche sempre nuove non va si sfoga con la ricerca di soggetti insoliti e affatto originali.

Bensì affronta una sfida ancor più dura: confrontarsi con racconti di sicuro impatto emotivo che magari, come nel caso del «Canone del male», hanno registrato un forte apprezzamento da parte del pubblico dei romanzi di genere. E qui il genere viene arricchito (quasi abbellito) con una fotografia sontuosa e lunare e con originali citazioni tratte da Brecht e David Cronenberg.

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