Tutta l'arte di Henri Cartier-Bresson dal disegno alla pellicola. E ritorno

In mostra all'Ara Pacis il percorso dell'Occhio del secolo che attraverso tutte le tecniche visive ha narrato il Novecento

Tutta l'arte di Henri Cartier-Bresson dal disegno alla pellicola. E ritorno

Prima di diventare «l'occhio del secolo» con una Leica, Henri Cartier-Bresson riempiva interi album di schizzi a matita e dipingeva. Quando, dalla fine degli anni '20 decide per la fotografia, distrugge tutto o quasi, ma si porta dietro questa prima scelta nei suoi scatti, cercandone il contesto, lo sfondo, con quel gusto per la composizione geometrica che ha appreso all'accademia di André Lothe.

È la regola dello «schermo» in cui si attende prendano il loro posto prede inconsapevoli, bambini, passanti, in una «coalizione istantanea». La fotografia per HCB è agguato al caso, scegliere con l'occhio un pezzo di realtà con il suo ritmo di linee e superfici e aspettare che qualcosa ci accada dentro. Ma la retrospettiva Henri Cartier-Bresson in corso al museo dell'Ara Pacis di Roma (fino al 25 gennaio) a dieci anni dalla scomparsa, realizzata dal Centre Pompidou in collaborazione con la Fondazione HCB e a cura dello storico della fotografia Clément Chéroux, si fa interessante, oltre che per la mole di materiale e lavoro ( circa 500 tra fotografie, documenti e filmati) come presa di posizione: basta con il Cartier-Bresson fotografo dell'«istante decisivo» in assoluto, se su quella definizione si è costruita la sua leggenda lui è stato molto altro.

Del resto, un occhio che setaccia mezzo secolo di mondo non può avere dietro sempre lo stesso uomo. C'è l'HCB surrealista che guarda alle foto di Eugène Atget. C'è l'HGB dell'impegno militante che collabora con la stampa comunista e, a esempio, mandato a Londra da Ce soir per l'incoronazione di Giorgio VI, gli gira la schiena per fotografare il popolo che lo guarda: militante sì, ma surrealista. C'è il cofondatore della Magnum, l'agenzia per antonomasia del fotoreportage e l'aspirante cineasta che diventa la “domestica tuttofare” di Jean Renoir, comparsate comprese. Ma filma anche la guerra di Spagna, gli ultimi giorni del III Reich, il ritorno dei prigionieri. Fino al maggio del '68, attraverso decolonizzazione, boom del dopoguerra, la concupiscenza degli sguardi alle vetrine, da Houston a Leningrado, da Parigi a Pechino.

Oggi che anche la fotografia è arte non c'è più bisogno di semplificarla intorno a un tema per farla entrare nei musei e partendo dall'artista che ancora si cerca (pezzi superstiti, paesaggi cezanniani, tele alla Lothe, un collage sulla scia di Max Ernst) se ne propone qui un ritratto sui generis che è un punto di vista sul '900.

Un approccio storico che si porta dietro un'altra scelta stimolante, quella di circa 350 foto vintage intese come oggetti storici che evolvono in tonalità e dimensioni, più faticose e intriganti rispetto agli esemplari tirati in formato standard pochi mesi prima di una mostra. Negli anni '70, Henri Cartier-Bresson non ha più voglia di essere considerato un'istituzione, abbandona il fotoreportage, la Magnum che non gli corrisponde più e riprende la matita. Ha sempre la Leica a lato e la usa per fotografie intense e silenziose, una natura morta di fogli di giornale e lenzuoli spiegati, un autoritratto che è un'ombra stagliata in diagonale rispetto a quella degli alberi.

È un HCB zen, che fa continui autoritratti su carta, lui che detestava farsi fotografare: chi commette fotografie come delitti in flagrante deve difendere il suo anonimato.

Ma è l'idea di immagine che è di nuovo cambiata. Con la Leica blocchi l'istante decisivo, con la matita lo recuperi nella memoria e lo rielabori come forma di meditazione.

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