Un uomo solo al comando dei consumi culturali italiani: Carlo Verdone, in vetta al box office con la commedia Posti in piedi in paradiso (oltre sei milioni e mezzo di incassi) e al secondo posto della classifica dei bestseller con La casa sopra i portici (alla Bompiani fanno sapere di avere venduto centomila copie in quattordici giorni). Un exploit da record per il regista e attore romano, che arriva tra l’altro dopo una carriera fatta solo o quasi di successi.
Sia nel film sia nel libro trionfa la nostalgia di un’epoca in cui la famiglia, con tutti i suoi difetti, era davvero il cuore della società e una sicurezza per i figli. Traspare anche un desiderio di normalità, messo a dura prova dalla realtà di tutti i giorni, che parla la lingua della crisi e dell’incertezza. Sentimenti molto condivisibili, che sembrano spiegare il doppio trionfo. Ma forse c’è di più.
Prendiamo il libro, divertente in superficie e amaro in profondità. Attraverso l’aneddoto e la battuta Verdone fornisce al lettore l’illusione di cui tutti abbiamo bisogno per tirare avanti: si può scendere a patti, se non proprio riconciliarsi, con gli errori, le sofferenze e i lutti. Dolorosi ma dolci, come un bel film, sono i ricordi famigliari della Casa sopra i portici (che avranno anche un seguito a Natale). Figlio di Mario, studioso di cinema e del Futurismo, Carlo fin da piccolo si trova immerso in un ambiente stimolante in cui non manca, come correttivo alla serietà, un sano gusto per la bizzarria e la dissacrazione. Che colpisce, a esempio, Pier Paolo Pasolini, le cui verbose telefonate sono accolte con un gesto eloquente che sta per l’espressione «che palle!». Oppure il regista d’avanguardia Gregory Markopoulos, il quale si presenta a casa Verdone ubriaco, scalzo e con una maglietta zozza; quindi si riempie di fernet, scrocca un piatto di rigatoni e i soldi per un taxi; e infine, dopo aver vomitato, se ne va non senza aver fregato un bicchiere di pregio. Anche i miti possono deludere o essere ridicoli.
Ritratti affettuosi sono riservati a Franco Zeffirelli, Vittorio De Sica, Federico Fellini e Alberto Sordi. Il regista di Amarcord si rivela una figura notturna. Insonne, gira Roma fino all’alba a bordo di una pantera della polizia, per poi raccontare a Verdone, alle sette e mezza di mattina, le vicende spesso atroci in cui si è imbattuto. Ne esce il lato oscuro di Fellini, una malinconia «senza ritorno», la malinconia di chi non è più in grado di capire il mondo o forse non ne ha più voglia. Come Alberto Sordi, col quale Verdone lavorò nel film In viaggio con papà (e di cui è considerato il legittimo erede). Il grande attore, nella vita privata, era tutt’altro che un allegrone, e viveva in una casa-museo con i mobili incellofanati in compagnia della severissima sorella. Secondo Verdone, era «un’anima riservata, controllata, irrimediabilmente legata al passato e poco propensa al presente... Una sera mi disse: “Oggi far ridere è veramente un’impresa. E lo sai perché? Perché non c’è più il senso del ridicolo. Guardati attorno... So’ tutti mostri! Ma chi ce fa più caso”».
La maggior parte delle pagine, però, è dedicata alla famiglia: il padre, la madre, il fratello Luca, la sorella Silvia e tutte le tate che si sono avvicendate nella casa sopra i portici. Naturalmente ci sono i primi passi di Verdone come artista, il debutto a teatro in cui, alla terza sera, si trova a recitare davanti a un solo spettatore (il quale però è l’autorevole critico Franco Cordelli, che subito dopo incoronerà il giovane comico come novello Fregoli).
Riconciliazione. Rinascita. Normalità.
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