La vera natura umana? È quella di apparire

La vera natura umana? È quella di apparire

Ci volle un bizzarro vescovo irlandese, all'inizio del Settecento, per dirlo chiaramente, contro buona parte del pensiero occidentale, e tutti i dinieghi ipocriti in proposito. L'apparenza conta, la confezione fa il contenuto, esse est percipi. Il motto del prelato-filosofo George Berkeley è il racconto più crudo e sintetico del nostro stare insieme, spartirci uno spazio pubblico, imbastire relazioni sociali, amorose, di potere, anche fare politica, certo. L'essere è un essere percepito, è una linea continua che dall'empirismo berkeleyano porta dritta a Vanity Fair come riassunto patinato dell'attualità e a Dagospia come autentico polso del Paese, lista di invitati al «gran teatro del mondo», chi appare e chi no. E non c'è da riscaldare nessun moralismo, tantomeno nessuna critica sociale, contro quest'invadenza palpabile dell'apparenza, anzi.
È una riabilitazione filosofica in piena regola, ciò che rende davvero interessante Le apparenze sociali, nuovo saggio di Barbara Carnevali (Il Mulino, pagg. 222, euro 20). Fedele al grido nietzschiano per cui «la profondità coincide con la superficie», la Carnevali ci conduce passo per passo nella grande, o piccola, commedia che insceniamo ogni giorno, negli artifici, nelle dissimulazioni e fin nelle frustrazioni sociali, mostrando che non solo sono oggetto degnissimo di filosofia, ma probabilmente anche la parte verace del nostro Io. Che nel momento in cui si dà «una forma apparente», accenna solo un passo in società con l'atto più banale, «assume un ruolo, indossa una maschera», e «l'individuo diventa personaggio» e quindi «persona pubblica» senza soluzione di continuità, sono tutte distinzioni posticce. Non esistono la vera Marilyn Monroe o la vera Norma Jean Baker - è l'esempio principe - ma solo quel rimpallo caleidoscopico e infinito di maschere sviscerato come nessun altro da Andy Warhol. La maschera è la persona, e il sentimento universalmente noto, e universalmente negato, della «vanità», è la ricerca della maschera migliore. Addirittura una spinta nobile, per un filosofo eccentrico come Alexandre Kojève, che scorgeva nella «lotta di puro prestigio» la summa di una capacità tutta umana, quella di andare oltre il mero dato, creandosi una varietà di «immagini» possibili. E chi, sulle orme di Rousseau, «vagheggia il mito» di un'innocenza originaria, di «una società senza spettacolo», come il saggista francese Guy Debord, è implacabilmente ricondotto alla propria illusione «ontologica». Non esiste uno stadio in cui «l'umanità è e basta», piuttosto l'umanità è già da sempre spettacolarizzata.
Chi si accanisce contro la “Fiera della vanità” mediatica che ci travolge ogni giorno, magari «attribuendo le cause alle esigenze del mercato capitalista», con un atto di marxismo fuori tempo massimo, cade in un equivoco fatale. Confonde, cioè, «quelli che sono tratti strutturali, e perciò costanti, di ogni sfera pubblica, con le varianti specifiche che essa può assumere nella società democratica di massa». Dove «tutti rivendicano il privilegio di apparire», con trionfo finale del warholiano quarto d'ora di celebrità. Dal ricevimento aristocratico si passa alla festa borghese e magari anche al party sguaiato, ma ovunque appaiano uomini c'è recita sociale, e un'estetica basata su di essa. Basti infilare gli esempi della «corte moderna», dei salons francesi dal Settecento alla Restaurazione fino alla Belle Époque, ma anche della Grecia classica, una civiltà così «apertamente votata al culto delle belle apparenze», che «addirittura aveva un concetto unico per esprimere i valori del bello e quelli del buono», la kalokagathia.
Una salutare cavalcata filosofica che finalmente ci convince ad abbandonare l'illusione un po' buonista e un po' giacobina: «Cancellare le apparenze, deporre le maschere, rinunciare alle forme in nome della trasparenza e della sincerità assolute». No, la vera ipocrisia sociale è non riconoscere l'esistenza, e fin l'arte, dell'ipocrisia sociale.

Piuttosto, bisognerà assegnare allo «stile», in quanto «rappresentazione sensibile di un carattere», il suo valore anche etico, e non meramente decorativo. Attuare, ancora con Nietzsche, un rovesciamento, riconoscere il tessuto estetico e mondano della vita, la «priorità delle apparenze». Come voleva un bizzarro vescovo irlandese.

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