C’ è un’espressione che ricorre in ogni intervista che si rispetti con autori americani. Ricorre perché, al di là di ogni sogno letterario e di ogni gigantesco business che sia o no a esso collegato, gli Stati Uniti hanno voglia di produrre una storia che si possa considerare in competizione con le grandi storia dell’Ottocento e del Novecento europeo. Ne hanno voglia da due secoli almeno. L’espressione è «grande romanzo americano». A tratti sembra abbandonata ma ritorna, puntualmente, non appena Jonathan Franzen pubblica il suo nuovo romanzo - se ne è parlato infatti per le oltre 600 pagine di Purity (Einaudi) - o non appena un nuovo talento si affaccia in libreria con una presenza consistente - è appena stato il caso di Garth Risk Hallberg e della sua Città in fiamme (Mondadori): «Il Grande romanzo americano è come il Messia per gli ebrei, tutti lo aspettano ma pochi si aspettano che arrivi veramente. Ogni generazione ha i suoi candidati, negli anni ’70 e ’80 uomini di una certa età, bianchi agiati e con grande fantasia, Don DeLillo, Philip Roth, Paul Auster. Poi più giovani, con alle spalle una storia di immigrazione, emarginazione o adattamento, una forte visione critica della società: David FosterWallace, Nathan Englander, Jeffrey Eugenides, Junot Diaz. A questo punto mi sarei aspettato cheil grande romanzo venisse da una delle minoranze, ma non è successo, così come non è successo che lo scrivesse Franzen, bontà sua. Oggi come oggi, giurerei che se dovesse succedere, il Gra lo scriverebbe una donna». Così commenta lo scenario letterario attuale in Usa il giornalista Giulio D’Antona che in Non è un mestiere per scrittori (minimum fax), si concentra sul «Vivere e fare libri in America» dalla prospettiva nostrana. È il momento giusto per tirare le somme sullo stato dell’arte della cultura americana perché gli Stati Uniti stanno attraversando uno di quei nodi di cambiamento che, visti dalla prospettiva italiana, possono aiutarci a capire di che pasta sono fatti i guru Usa di culto in Europa, come Franzen o FosterWallace, o i bestseller da milioni di copie, come il «caso» The Girls, di Emma Cline, romanzo sull’adolescenza ispirato alla «Charles Manson family», in arrivo anche da noi a fine settembre per Einaudi con il titolo Le ragazze: «Uno dei romanzi più sorprendenti che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, anni in cui la letteratura americana hainvece soltanto aderito agliinsegnamenti delle scuole di scrittura e omologando la lingua in maniera inquietante», riassume D’Antona. «Emma Cline ha scritto un gran bel libro, per temi e per stile. Non so perché Baricco abbia detto che è senz’anima, ma forse si è un po’ distratto riguardo la letteratura americana degli ultimi quindici anni, che ha vissuto picchi di piattezzamortale. Ti dico di più: per quanto mi riguarda è questo il libro dell’estate. Che poi gli americani leggano altro o non leggano, importa poco». Ecco, appiattiti, sì. Ma anche pronti al dibattito e magari chissà, da quando Trump si è affacciato sulle scena, al vecchio engagement. Poco più di un mese fa ad esempio ha cominciato a circolare una petizione, intitolata Una lettera aperta al popolo americano, in cui di seicento scrittori - tra gli altri Junot Díaz, Michael Chabon, Jennifer Egan, Tobias Wolff, Stephen King, Dave Eggers - elencano le ragioni che li portano a schierarsi contro Trump. E qualche giorno dopo, lo scrittore Aleksandar Hemon rendeva noto che di non averfirmato la petizione dei suoi colleghi perché Trump segue le regole del processo democratico, e quindi ha il diritto di partecipare alle elezioni come gli altri. Appiattiti, sì, ma anche pronti a stravolgere il punto di vista, se necessario, ad aprirsi a nuove culture, ad assorbire, tra i nomi di spicco autoctoni, quelli di altre letterature, a usare storie di altri paesi per dare nuova linfa al proprio: «Dal dominicano Junot Díaz ai nigeriani Chimamanda Ngozi Adichie e Teju Cole, fino al giamaicano Marlon James, vincitore dell’ultimo Man Booker Prize con Breve storia di sette omicidi, la letteratura dell’immigrazione sta assumendo un ruolo sempre più rilevante. La tendenza all’apertura si è manifestata anche con un lievissimo aumento dei libri tradotti, da tempo fermi al tre per cento di tutti i pubblicati nel paese, sicuramente sull’onda dell’enorme successo di autori stranieri come Elena Ferrante e del norvegese Karl Ove Knausgård», ci spiega la traduttrice Silvia Pareschi, che nel suo I jeans di Bruce Springsteen e non solo (Giunti) ha appena realizzato un memoir culturale coast to coast che cerca di svelare incongruenze e miti di una terra in cerca di nuove promesse. Il libro di D’Antona è invece uno sguardo esclusivo sul più importante mercato editoriale del pianeta. Dipinge agenti letterari coperti di dollari, editor delusi e geniali redattori di riviste che credevamo scomparse, ritratti illuminanti di autori Jennifer Egan e Jonathan Lethem. E ci aiuta a dare un senso ai nuovi percorsi carsici dell’ispirazione, ma anche ad ansie e tendenze narrative: «La letteratura si sta avvicinando molto allanon fiction» aggiunge D’Antona. «La ricerca - personale, al limite del memoir, o storica - è parte centrale del lavoro delle nuove generazioni di scrittori che guardano sempre più alla realtà per costruire le proprie storie, anche in contaminazione con il giornalismo. Per tornare a The Girls: gran parte del successo lo fa l’ambientazione, la revocazione, la capacità di immergersi in un’epoca diversa e in una diversa realtà. Penso a Alexander Chee, che ha scritto un librone mastodontico chiamato Queen of the Night, in cui racconta di una cantante d’opera del secolo scorso, Will Boast che con il suo Epilogue ha esplorato la storia della sua famiglia come in un documentario di Sarah Polley, ma anche Merritt Tierce, Maaza Mengiste, Matthew Thomas». Tutti si dividono tra due o tre professionalità (sempre legate alla scrittura, ma sempre con un piede nella narrativa e l’altra nel giornalismo o nella scrittura di servizio). Vivono a New York, ma vogliono starci sempre meno. E per tutti il presidente è una questione delicata: molti avrebbero voluto Bernie Sanders, ma ormai è andata e si rassegnano. Intanto la generazione già affermata pare cercare sempre più uno «splendido isolamento», rappresentata a perfezione dalle ossessioni del leader, Jonathan Franzen: «Dopo l’uscita delle Correzioni, nel 2001, raccontò di aver lavorato al buio e con cuffie che cancellano ogni rumore esterno» ricorda Pareschi, che scambia epistolari con molti degli autori che traduce, tra cui appunto Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith.
«Una volta gli ho rivelato che condividevo il suo odio per i rumori e lui mi ha mandato un file mp3 contenente un’ora e venti minuti di “rumore rosa”: un tipo di rumore statico usato per bloccare i suoni di sottofondo». Speriamo che si connetta almeno durante le elezioni: a volte, si sa, l’ispirazione può indossare un volto popolare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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