Vizi, virtù e pazzie degli scrittori assediati dalla noia

I piaceri dei grandi di Giuseppe Scaraffia è un gustoso dizionario dei sistemi adottati per "arredare il vuoto"

Vizi, virtù e pazzie degli scrittori assediati dalla noia

Da anni Giuseppe Scaraffia affida ad agili libretti una sua particolare concezione del mondo, dove la moda e la letteratura vanno a braccetto nella loro apparente dicotomia e sostanziale unicità. Diceva Walter Benjamin che la prima era «un balzo di tigre nella storia», il tentativo - codificato nei repechages, nei revival, negli omaggi «alla maniera di» - di attualizzare il passato e/o eternizzare il presente. Quanto alla seconda, come lo stesso Scaraffia nota, «ogni libro è un'arca di Noè» che porta in salvo un frammento di ciò che è stato per farne un ciò che è... Ambedue insomma, lavorano per noi contro «l'incessante lavorio di demolizione del tempo», questo conte Ugolino che se ne sta accovacciato sulle nostre spalle a rosicchiarci il cranio...
In I piaceri dei grandi (Sellerio, pagg. 241, euro 13), appena uscito, quel binomio prima ricordato viene ora coniugato in una sessantina di voci, dalla «b» di Buone maniere alla «v» di Valigia, ovvero una cavalcata fra tic, vezzi, passioni, manie praticate da personalità del mondo dell'arte - poeti, romanzieri, filosofi, musicisti, pittori - per dimenticarsi di sé, un modo di arredarsi una vita altrimenti insopportabile nella sua lugubre corsa verso il nulla. E proprio «Arredare il vuoto» è la voce che introduce le altre, le organizza e in qualche modo le trascende. «Qualsiasi attività è misurabile solo dal punto di vista della sua efficacia nel distrarci dal vuoto. Tutti i rimedi, sempre più o meno fallimentari, sono equidistanti dal centro: l'abisso incolmabile del vuoto. Dal mistico al giocatore d'azzardo, dal guerrigliero al collezionista, tutti inseguono la stessa chimera. L'ultimo mezzo per resistere al peso annientante e minaccioso del vuoto è il suicidio che mira a battere sul tempo l'avversario, la versione sacra della fretta profana che ci sospinge in una corsa irrimediabilmente perduta con il tempo». Solo un supremo snobismo può distoglierci da questa tentazione: «È davvero poco elegante suicidarsi» ha scritto una volta Cioran.
In questa corsa a fuggire il tempo ci si può concentrare sulle «buone maniere», perché poi nulla è «più volgare della fretta», come diceva Emerson, oppure sui piaceri pericolosi perché, a detta di Montherlant, «tutto quello che non è godimento è secondario», e anche nell'alcol. «A volte un uomo intelligente è costretto a ubriacarsi per passare del tempo con gli imbecilli» sosteneva Hemingway, ed è di William Faulkner la convinzione che «la civilizzazione inizia con la distillazione». Per certi versi, il viaggiare è l'attività che nel contemplarle tutte, lentezza, azzardo, ebbrezza, le sublima. Scriveva Paul Morand che, una volta morto, avrebbe voluto che della sua pelle si fosse fatta una valigia, a testimonianza di un modo di vivere destinato a sopravvivere. Oppure ci si può ritrovare nell'aristocratico Ernst Jünger: «Preferisco disegnare una carta geografica che fare parte della segnaletica stradale. Io non son una guida, sono una mappa».
I piaceri dei grandi è, sotto questo profilo, una miniera inesauribile, colta e mai banale. I modi per «arredare il vuoto» possono essere elaborati, maniacali o effimeri: «Ognuno ha le proprie ricette e spesso i più dissipati sembrano i più saggi». Per tutto l'Ottocento quella di fare debiti, per esempio, fu un'abitudine elegante quanto diffusa, praticata ancora a inizio Novecento per poi trasformarsi in mestiere e quindi fatica, come è il caso dei grandi debitori-truffatori della nostra contemporaneità, dove il debito da mezzo si è trasformato in fine. Prima era ancora un'arte. Balzac aveva messo a punto una serie di parole d'ordine per permettere che, attraverso i suoi domestici, arrivassero alla sua persona amici e non creditori, de Musset sosteneva che «un gentiluomo senza debiti non potrebbe presentarsi nei salotti», Dumas fu costretto a vendere il suo castello di Montecristo prima di averlo finito... «Fare una vita da rovinata richiede molti mezzi» sospirava Louise de Vilmorin, prima fidanzata di Antoine de Saint-Exupéry, uno eternamente senza soldi, ma che trovava naturale mandare il suo cameriere russo a fare la spesa in taxi. «Io e il denaro ci siamo stati cordialmente antipatici sin dall'inizio», riassunse Chateaubriand nelle Memorie d'oltretomba.
Scrive Scaraffia che gli specchi del ristorante La Pérouse di Parigi, tempio della Belle Époque, sono ancor oggi «striati dagli innumerevoli graffi che facevano le mantenute per verificare che i diamanti appena ricevuti fossero autentici». La contessa di Castiglione, attraverso le cui gambe passò il Risorgimento, fece velare tutti gli specchi di casa per non dover vedere l'invecchiamento operato dal tempo sul suo volto e sul suo corpo, e nel romanzo Sangue velsungo di Thomas Mann lo specchio riflette due immagini successive di Sigmund, il protagonista maschile. Nella prima, «è ancora un puntiglioso giovanotto che si rade», nella seconda, poche ore prima che si compia l'incesto con la sorella, «gli occhi sono supplichevoli e lucidi, umidi di uno stanco dolore».
Per Baudelaire, un dandy avrebbe dovuto vivere e morire davanti a uno specchio.

Quando si ammalò, fu proprio lo specchio ad avvisarlo: «Mi sono guardato, non mi sono riconosciuto, e ho salutato». Mio padre, poco prima di morire, all'Ospedale militare del Celio, me ne diede una versione differente: «Non mi sono riconosciuto, e mi sono presentato». Senza aver letto Baudelaire, lo aveva corretto. In meglio.

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