È il più influente cantante lirico del mondo. Uno e trino poiché canta, dirige orchestre e amministra (il teatro di Los Angeles). Ha in repertorio 150 ruoli spalmati su 4mila recite, con una media di 80 alzate di sipario all'anno, cui s'aggiungono le presenze come direttore. 77 anni e non sentirli. Ma ancor prima: non dichiararli, perché rimane un mistero l'effettiva data di nascita. Mentre è una certezza il fatto che in qualsiasi veste si presenti - tenore, baritono o direttore - faccia sold out. È un marchio, l'unico della lirica assieme a Cecilia Bartoli e in parte Anna Netrebko. Alle oltre 100 incisioni, siglate da 12 Grammy, Domingo ha aggiunto un'altra, per l'etichetta Sony e in condivisione con il chitarrista Pablo Sainz Villegas. Volver è il titolo nonché il brano conclusivo - un tango - di quest'antologia di canzoni latinoamericane, da Nunca a Adios Granada a Dos croces.
Lei canta Gracias a la vida. La sua vita è un successo in crescendo. Quanto hanno inciso la fortuna, il talento, il lavoro?
«E' un miscuglio di questi elementi. Bisognerebbe scegliere bene i propri genitori, e io ho avuto la fortuna di essere stato immerso subito nel teatro musicale poiché figlio di cantanti di zarzuela. Anche la presenza di talento si può attribuire in parte alla buona sorte».
Mentre il lavoro?
«È necessario per sviluppare il talento ma anche se stessi come persone, perché se non ci si sviluppa nella vita, il resto conta poco. A fare la differenza è poi la buona amministrazione dei mezzi fisici e mentali: se li lasciamo andare per conto proprio, la carriera sarà probabilmente molto breve».
Questo disco è un viaggio nell'America Latina. Cosa accomuna canti di paesi così diversi e cosa li distingue?
«Appartengono alla grande famiglia latinoamericana, ma al tempo stesso rappresentano le diverse culture. La lingua spagnola cambia di paese in paese, poi ci sono i dialetti dei popoli indigeni. Tra il nord del Messico e la punta estrema dell'Argentina corrono oltre diecimila chilometri, le atmosfere cambiano».
È cresciuto in Messico, in che rapporti è con questo Paese?
«Avevo otto anni quando la mia famiglia si trasferì da Madrid a Città del Messico. Anche se mi sento spagnolissimo, in Messico ho trascorso gli anni della scuola, quasi tutto il mio training musicale, gli anni cruciali dell'adolescenza e persino le mie primissime esperienze come cantante d'opera. S'aggiunga il fatto che mia moglie, Marta, è messicana. I nostri figli sono messicani a metà, ho ancora diversi parenti lì, e vi passiamo spesso le vacanze».
Quando supera la frontiera degli Usa, cosa le manca dell'America latina?
«L'atmosfera, anzi le atmosfere dei Paesi del Sud sono uniche, è inevitabile provare nostalgia però le due città degli Usa dove passo più tempo sono New York e Los Angeles, in entrambe ci sono enormi comunità latinoamericane. C'è tanta America latina negli Stati Uniti».
C'è un paese latinoamericano che dopo le elezioni di questa primavera le ispira fiducia lasciando intravedere un cambio di registro?
«Preferisco non fare previsioni, perché se quelle degli esperti di politica sono spesso sbagliate, figuriamoci quelle di noi artisti».
Lei canta il sole e l'esuberanza dell'America latina. In realtà, vi sono paesi che vivono nel buio di dittature. Vuole forse lanciare un messaggio?
«Le musiche con le quali siamo cresciuti possono darci sollievo e un senso di
continuazione. Ci ricordano che le cose non finiscono oggi e non finiscono con noi, ma che ognuno di noi è una piccola parte di una lunghissima catena che esisteva prima di noi e che ci sarà quando noi non ci saremo più».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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