Zadie e la colpa di sentirsi in colpa

Il romanzo della Smith certifica il fallimento del post moderno. Mentre in Italia c'è una voce davvero nuova

Zadie e la colpa di sentirsi in colpa

Sono passati dodici anni. Milano, un giorno di novembre, ti ritrovi a cena con lei per un'intervista. Non è un'esclusiva. È quasi un favore. Sembra che a nessuno interessi la storia di questa ragazza di madre giamaicana e le lentiggini, sulla pelle scura, ereditate dal padre inglese. Al tavolo c'è l'ufficio stampa dell'editore italiano. Ti aveva chiamato qualche giorno prima preoccupata. «Conosci Zadie Smith?». «No». «È una scrittrice inglese, molto giovane. Ha venduto i diritti del suo romanzo ancora in bozze. Dovresti leggerlo». «Promesso». «Ti va di incontrarla? Viene a Milano. Solo che tutti gli altri giornali mi hanno praticamente detto no. Dammi una mano. C'è il rischio che questa arriva qui e non parla con nessuno».

Quel romanzo era Denti bianchi. Sembrava una linea di confine, un passaggio a Nord Ovest dentro un quartiere di Londra, una mappa per viaggiare nel nuovo secolo, con il bengalese Samad Iqbal che trova certezze solo nel passato e Archie Jones che sceglie lanciando monete in aria. Zadie ti racconta l'energia della letteratura anglosassone, soprattutto di quella americana che è cresciuta a pane e postmoderno e ora sta cercando di andare oltre. È lei a parlarti per la prima volta di Dave Eggers e forse anche di Aimee Bender e Michael Chabon. Poi Zadie Smith ha cominciato a viaggiare, le lezioni a Harvard, New York, due anni a Roma, quartiere Monti, gli altri romanzi, L'uomo autografo i saggi sulla letteratura che sono la cosa da amare di più e poi sempre più in giro come una madonna nera del romanzo, a metà tra una dea mistica e una rockstar. Quando mesi fa hai cominciato a leggere N-W (Mondadori), il romanzo del ritorno a Nord Ovest, del ritorno a casa, qualcosa di tutta quella forza si è perso. E forse è normale. Nulla - scrive lei - sopravvive al proprio racconto. Il punto è che ti ha deluso. Come ti hanno deluso molti di quelli che all'inizio di questo nuovo secolo potevano cambiare marcia. Non sono diventati mediocri. Ma anche loro rimasti ingabbiati in questo limbo, finendo nei rivoli del '900, invece di superarlo, rincantucciandosi nelle filosofie dei padri e dei maestri, accettando di essere residui di un tempo al tramonto. È l'illusione che al massimo si possa sperimentare nella forma e nel linguaggio, ma non c'è più un cavolo da dire.

Ma dov'è che ci siamo impantanati? Non è solo la crisi economica mangiafuturo. Il peso di N-W sta tutto in un maledetto senso di colpa. Il senso di colpa di aver lasciato il proprio quartiere, di non saper più parlare la lingua di tuo padre e di tua madre, quelli che ti hanno fatto studiare, condannandoti ad essere diversa da loro. Il senso di colpa di non aver «ripudiato» i maestri del '900, fino a rifugiarti nelle loro idee. Il senso di colpa di non aver neppure saputo immaginare il futuro. Il senso di colpa di non saper fuggire dalla prigione di questi anni. E di aver mentito a te stesso, soprattutto. Perché il difetto maggiore di N-W è che puzza di artefatto, di finto. Le due donne, le due protagoniste, sono i due destini con cui Zadie non è mai riuscita a fare i conti sul serio. Li ha lasciati inconciliabili, tanto che ognuno continua a fare del male all'altro. È questa resa dei conti finale mancata che ci lascia prigionieri in questo limbo di fango. Zadie non si mette a nudo. Torna a casa per assecondare un senso di colpa. Non lo risolve. N-W è una cattedrale vuota. Non sai se c'è una via d'uscita. C'è però un altro romanzo che hai finito di leggere da poco. E anche lì si respira nella carne quel senso di colpa che sprofonda. È Il corpo docile (Einaudi) di Rosella Postorino. È un romanzo italiano e non è un particolare irrilevante. Non lo è perché l'orizzonte è un carcere. E quel carcere è la prima cosa che vedi. È dove nasci. Ti insegue, ti violenta, ti incarna, ti marchia e toglie il respiro. È come il campo di una particella elementare che finisce per dare massa a tutti quelli che lo attraversano. Figurati se ci sei nato. Questo carcere non solo ti accorcia l'orizzonte e chiude il destino, ma ha effetti sul tuo corpo, come se fosse il principio di una mutazione genetica. E più lo respiri e più assume il profilo di questa Italia. Quasi ti viene il dubbio che Rosella Postorino non abbia conosciuto altra prigione che questa. Non abbia mai avuto la possibilità di declinare il futuro come semplice futuro, muovendo i suoi passi solo con le catene del futuro anteriore. Rosella però non sfugge alla resa dei conti. Non scantona dal senso di colpa. Non lo seppellisce. Alla fine si ribella al Panopticon e lo fa con una lingua più dura, più vera, più sincera. Più nuda. Non crea un ghetto ad uso e consumo del club dei letterati.

Lo sai. Il gioco nasce da una ossessione. Sei convinto che per ritrovare il futuro sia necessario archiviare il postmoderno. Ed è come rinnegare tutto ciò che hai amato. E dalla torre butti Zadie perché lo fa meno di Rosella. Come fossero due simboli e come tutti i simboli arbitrari. Rinneghi chiamando in causa proprio chi è arrivato ai confini di questa lunga stagione indefinita. Al di là di quel confine lui ha perso le parole. David Foster Wallace. «Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party e per un po' va benissimo. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso e le droghe finiscono e le cose cominciano a rompersi e rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigarette sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, e così pian piano cominci a desiderare che i tuoi tornino e ristabiliscano un po' d'ordine, cazzo.

Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano. Sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse».

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