nostro inviato a Como
Qui l'avevamo perso, qui l'abbiamo ritrovato. Sul lungolago di Como, sbucando dagli alti e bassi della vita, Damiano Cunego riallaccia i fili del suo tribolato destino di ragazzo prodigio. Tre anni: sono passati tre anni da quando coronò sullo stesso traguardo la sua annata d'oro, di rivelazione e di gloria, aggiungendo il Lombardia ad un Giro d'Italia da Piccolo Principe. Da allora, chi l'ha visto. Solo cenni saltuari e confuse segnalazioni, qua e là per corsette minori. Nulla di adeguato al suo talento e alla sua reputazione. Tanto da far nascere in tutti quanti un cupo presentimento: e se fosse sparito per sempre?
Improvvisamente, dopo lunga macerazione e rapida maturazione, passando per un matrimonio e una paternità decisamente salutari, eccolo ricomparire là dove aveva fatto perdere le sue tracce: sul palco della corsa in linea più bella e più cara d'Italia, una delle più belle e più care al mondo. Vittoria d'autore, contorni da capolavoro. Come se tre anni non fossero passati. Cunego è fresco, aggressivo, debordante. Quando l'azzurro Tosatto conclude la sua epopea di giornata, con centosettanta chilometri di fuga, Damiano entra in scena assieme a tutti gli altri big (escluso l'iridato Bettini, in gita premio), a conferma che il Lombardia, per quanto autunnale e tardivo sia nel calendario internazionale, resta comunque un teatro sognato da chiunque. Sul Civiglio, una salita corta e carogna, attacca il favorito Frank Schleck: Cunego risponde benissimo, e con lui l'altro baby di casa Italia, Riccardo Riccò. Reggono soltanto lo stesso Schleck e l'australiano Evans. In discesa, Cunego prova un primo allungo. Attraversando Como, il gruppetto dei migliori si ricompatta: dieci in tutto, con i Rebellin e i Dekker di rientro, senza Schleck che cade. Poi l'ultimo strappo, il glorioso San Fermo: attacca Riccò, Cunego risponde. La corsa diventa affare loro, il presente e il futuro del ciclismo azzurro, sempre ammesso che questo sport stupendo e disastrato sia in grado di costruirsi un futuro disinquinato.
È una bellezza, è una vera bellezza godersi un finale così. Dietro, il gruppetto del veloce spagnolo Sanchez, dello Schleck fratellino (Andy, quello che sta in piedi) e dell'intramontabile Rebellin, arriva a un tiro di schioppo dai due assatanati fuggitivi. Ma niente di più. Non abbastanza. Cunego e Riccò sono giovani, ma gestiscono il minuscolo patrimonio da scafati veterani. Cunego un po' di più, piazzandosi dietro al momento giusto. La scelta è decisiva: scattando alle spalle, va a vincere con ampio margine, senza margine di discussione.
Incredibile, inverosimile ciclismo: nell'anno di un altro tsunami, l'ennesimo dell'era moderna, riesce ad inventarsi nell'ultimo giorno utile una storia positiva. Un finale a lieto fine. Due ragazzi italiani, classe '81 e classe '83, prendono a mazzate la concorrenza straniera in una corsa vera e sincera, assieme alla Liegi-Bastogne-Liegi la più vera e la più sincera di tutte. L'avvenimento cade a tre settimane dal grande Mondiale di Bettini, una settimana dopo la resurrezione di Petacchi nella Parigi-Tours. Cosa significa, che siamo nel mondo degli indistruttibili e degli inaffondabili? Il dubbio è legittimo. Ma sarà bene non andarne troppo orgogliosi. In fondo, abbiamo ritrovato Cunego tra le macerie.
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