Serenella Bettin
Mitrovica
U n pezzo di terra grande tanto quanto l'Abruzzo, in cui convivono sei differenti etnie. Il Kosovo si estende per 10.908 chilometri quadrati circondato da Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Una foglia di terra immersa in una conca, martoriata e distrutta dalla guerra. Ancora si vedono le case di periferia semi distrutte, sventrate, squarciate dalle esplosioni delle bombe e annerite dai colpi di mortaio. L'aria puzza ancora di polvere e di devastazione, se non fosse per quella sigaretta che ci accendiamo. Abitazioni dove non arriva acqua, luce e gas con nemmeno una strada per accedervi e dove i giardini sono diventati cimiteri.
La guerra è finita diciotto anni fa. La bandiera dello stato del Kosovo, la sagoma colorata di giallo su sfondo blu, ha sei stelle: ognuna corrisponde alle sei etnie. Ci sono gli albanesi, i serbi, i turchi, i rom, i bosniaci e ci sono i gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. Di queste sei comunità etniche, tra la serba e la albanese corre ancora l'odio. Soprattutto a Mitrovica, città del Kosovo settentrionale. Con i suoi 307mila e 500 abitanti è considerata capoluogo del Kosovo del Nord, ma è spaccata in due metà da un ponte, quello di Austerlitz, che dovrebbe unirla e che più volte l' Unione europea ha tentato di aprire e di inaugurare. Sotto ci passa il fiume Ibar. Nella parte Nord, vivono i serbi; in quella Sud gli albanesi.
Andiamo a Mitrovica la mattina del 22 settembre. Sveglia alle 5.55. Due pattuglie dell'unità specializzata dei carabinieri italiani, la Msu (Multinational Specialized Unit) il cui comando dall'11 settembre scorso è affidato al colonnello Marco Di Stefano, ci vengono a prendere a Pristina, dove alloggiamo nella base militare di Kfor, la Kosovo Force, forza militare internazionale a comando Nato che dal 1999 presidia l'intera regione con l'obiettivo di mantenere un ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento a tutti i cittadini a prescindere dall'etnia. Una forza che ora conta 4.500 militari e che molto ha fatto dal 1999. L'attuale comandante è il generale di divisione Giovanni Fungo.
Saliamo sulla jeep dei carabinieri con l'appuntato scelto Vilmer Mandelli e alla guida il carabiniere Alessandro Cocchis. Percorriamo la strada che conduce dritta in Serbia. Attorno distese di boschi, pietre e un grande ammasso di piombo a forma di gianduiotto. Ci fermiamo in una specie di autogrill, nei locali non si può fumare, ma in Kosovo tutti lo fanno. I carabinieri ci dicono che nella città dove stiamo per andare è visibile la spaccatura tra le due parti, al di là e al di qua del ponte. Arrivati a Mitrovica Nord la statua del principe serbo Lazar svetta davanti a noi. Non si avverte subito la divisione della città. Solo le bandiere serbe che sventolano sopra le nostre teste, sul viale Peter King, rimarcano il governo. La gente passeggia, i bar offrono caffè a cinquanta centesimi, i bambini vanno a scuola e i venditori dei banchetti offrono giornali e sigarette. Percorriamo il viale, ma dritto davanti a noi la strada è sbarrata. Un grande pannello di lamiere ci rimbalza davanti impedendo la visuale. Lì dietro sta il ponte di Austerlitz.
Un ponte costato la bellezza di un milione e 200mila euro, i cui lavori di ristrutturazione sono cominciati nel 2015 e dove ora gli unici che possono passeggiare liberamente sono i cani. L'accesso ai veicoli non è consentito. Lo stemma con le 28 stelle gialle su sfondo blu ricorda il marchio europeo. «Riaprirà al traffico tra meno di sei mesi il luogo emblematico delle tensioni tra Serbia e Kosovo» si leggeva sulla stampa locale ad agosto 2016 dopo che ad annunciare l'apertura del ponte era stato il Servizio europeo per l'azione esterna (Seae). Ma siamo a fine 2017 e quel ponte restaurato e nuovo di zecca, che brilla, luccica e sa di nuovo, resta una lingua di asfalto vuota con alle estremità ogni tipo di ostacolo. Tutto quello che serbi e albanesi hanno potuto mettere per bloccare il transito l'hanno messo: lamiere di ferro, sacchi sopra la strada, tubi in cemento, transenne. L'assetto Msu di Kfor presidia il ponte 24 ore su 24.
I carabinieri spiegano che se dovesse andarsene la forza militare a comando Nato, il Kosovo sarebbe un vulcano pronto a esplodere. I rapporti tra serbi e albanesi non sono facili, la gente teme ritorsioni e viaggia senza targa, in modo da non essere riconosciuta. Appena valichiamo il ponte ed entriamo nella parte Sud della città, lasciandoci alle spalle le bandiere serbe, si trova una moschea, giusto davanti alla parte Nord a maggioranza ortodossa. Ma le divisioni non sono solo nell'aria. La città di Mitrovica ha due sindaci, due amministrazioni. La parte Nord è sede delle istituzioni serbe riconosciute da Belgrado ma non dal governo secessionista kosovaro. «I conflitti interetnici ci sono soprattutto qui spiega a Il Giornale il colonnello Di Stefano Basta una piccola scintilla per creare situazioni di tensione che potrebbero portare a episodi di violenza».
L'ultimo due settimane fa. Alcuni agenti della Kosovo Police venuti da Pristina sono stati picchiati da un gruppo di persone con il volto coperto. I serbi non hanno accettato che la Kp facesse perquisizioni nella Croce Rossa serba.
«La nostra presenza è utile continua Di Stefano funge da deterrente con un posto fisso sul ponte e pattuglie mobili, ma la situazione non è stabile». Infatti «Albania: fuck Serbia» si legge a caratteri cubitali su una casa uscendo dalla parte Sud. Per adesso, è ora di rientrare.
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