Almeno lì, in corsia, si può brindare con l’infermiera di turno. E, se si è fortunati, si può trovare quella che ci crede e, sul camice bianco, indossa il pon pon di Babbo Natale. Per portare un sorriso o una nota di colore. Comunque malinconica, visto il contesto. Certo. Ma sempre meglio che trascorrere il Capodanno in perfetta solitudine. Con tutte le paure e le insicurezze del caso. Arrivano le vacanze, e il vecchietto dove lo metto? Sembra questo il refrain di una società sempre più fredda e indifferente. È davvero così?
Secondo lo studio del Fadoi (Federazione associazioni dirigenti ospedalieri internisti), durante le festività natalizie nel nostro Paese i ricoveri degli anziani aumentano del 10 per cento. Se durante tutto l’anno i vecchi costituiscono la metà del totale dei degenti, tra Natale e Capodanno la percentuale aumenta ancora. «Oltre agli acciacchi con cui devono fare i conti - sottolinea Dario Manfellotto - molti di loro sono alle prese con una nuova malattia: la solitudine». Non sanno dove andare, non sanno a chi rivolgersi. Nel periodo festivo l’assistenza di base latita, i medici sono difficilmente reperibili o sono avvicendati dai sostituti con i quali non c’è un rapporto consolidato. Così, al primo aggravamento o anche al primo sintomo, ci si rivolge al pronto soccorso dell’ospedale più vicino. Gli esperti di assistenza sanitaria li chiamano «auto-ricoveri»: gli anziani ricorrono alle ambulanze o arrivano in taxi ed elencano le proprie patologie. E da lì, dal pronto soccorso, la visita di emergenza si trasforma sempre più spesso in ricovero. Chi si assume, infatti, la responsabilità di rimandare a casa una persona anziana sola, anche se solo affetta dalle classiche patologie invernali come influenza, bronchite o insufficienza respiratoria? Chi si assume il rischio che, con la carenza dei servizi territoriali, anche un piccolo aggravamento mal gestito possa rivelarsi fatale?
Secondo la ricerca, il fenomeno degli auto-ricoveri «è più massiccio nelle grandi città». Evidentemente in provincia, in periferia, la rete di solidarietà e di assistenza regge ancora. Nelle metropoli si rinuncia sempre meno all’abitudine della vacanza, del viaggio. Soprattutto, visti i tempi di crisi, del soggiorno nella seconda casa di proprietà. L’anziano rimane solo e finisce in «parcheggio all’ospedale». Sotto accusa le famiglie, sempre più egoiste? In parte sì. Ma anche in questo caso gli esperti mettono in guardia dai giudizi affrettati. Assistere un anziano, magari un malato cronico, è «un lavoro faticoso e stressante, che spesso ricade sulle donne di casa», osserva Annalisa Silvestro, presidente della Federazione degli infermieri. E spesso nemmeno l’aiuto di una badante, raramente in possesso di adeguate competenze sanitarie, può risolvere il problema. Tanto più che, durante il periodo festivo, anche le badanti, quasi sempre straniere, hanno l’esigenza di dedicarsi maggiormente alla propria famiglia se non di tornare nei loro Paesi d’origine.
Tante cause, dunque, sono alla base della solitudine e dell’insicurezza dei nostri vecchi che affollano gli ospedali. Ma forse ce n’è una, ancora più grande, che le riassume tutte. Mentre la nostra società innalza progressivamente l’età media, con la percentuale di anziani sul totale della popolazione in costante aumento, al contempo non è sufficientemente attrezzata per affrontare i problemi della vecchiaia. Qualche decennio fa, il nonno era parte integrante della famiglia. Restava in casa più a lungo possibile. La malattia e la decadenza fisica non erano un tabù come lo sono oggi, in un’epoca tutta votata al benessere, alla prestanza, all’eterna giovinezza. Anzi, per i più giovani, il contatto con i vecchi serviva a contemplare la caducità dell’esistenza e il senso del limite. A non cadere nell’illusione dell’immortalità. Oggi gli ottantenni, padri della generazione del ’68, sono spinti al margine di una società sempre più standardizzata e selettiva.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.