Roma - Diceva malizioso o preveggente Gianfranco Fini, venerdì scorso, ricordando l’ormai celebre promessa: «Adesso vediamo se D’Alema è un uomo d’onore». E lui, l’uomo che aveva detto: «Se non abbiamo una maggioranza ampia il governo se ne va a casa», dal palco del teatro Brancaccio, ieri, ovviamente lo ha deluso: «È normale che la coalizione che ha vinto le elezioni e ha ottenuto la maggioranza in Parlamento venga rinviata alle Camere per verificare la fiducia».
Normale, come il paese che sogna da anni, come la sinistra che Massimo D’Alema vorrebbe, e che però continua a non esistere. E così, ieri, a Roma, la manifestazione Per il partito democratico indetta dalla Quercia romana al Teatro Brancaccio è diventata per (l’ex o neo?) ministro degli Esteri l’occasione per l’ennesimo rito di training autogeno nella Quercia. Sul palco con lui l’amico-nemico di sempre, Walter Veltroni, in prima fila tutto lo stato maggiore del partito romano e nazionale, quadri, dirigenti, intellettuali, ministri. Entri dentro il teatrone foderato di velluto rosso, e ti rendi conto che i Ds hanno bisogno del loro «leader maximo» come di uno psichiatra, che hanno bisogno di un ennesimo lavacro rigenerativo. Le sconfitte si sono sommate, nei mesi e negli anni, e l’ultima, la sfiducia a Prodi, è entrata in cortocircuito con il Partito democratico, e un congresso a cui il grande corpo dei militanti arriva a denti stretti e con il fiatone. Nessuno lo sa meglio di Veltroni e dello stesso D’Alema. E così, i discorsi dei due dioscuri del Botteghino, per una volta, non sono antitetici ma compatibili. Scompaiono le brutte parole, la crisi, persino l’immagine forte di Romano Prodi (mai citato dal primo, solo una volta dal secondo) e gli ammacchi del suo governo. Veltroni mette in primo piano il modello capitolino, sottointendendo che per rilanciare la coalizione bisognerebbe fare «come in Campidoglio». Bastano questi assaggi, per farsi un’idea: «Nelle regionali in cui vinse Storace avevamo perso di sette punti. Nelle ultime abbiamo vinto di 24! In soli cinque anni abbiamo recuperato il 31% dei voti, un intero partito si è spostato da una coalizione all’altra». E poi, tre cifrette economiche: «A Roma il valore aggiunto è raddoppiato, l’occupazione è raddoppiata, quella femminile è triplicata». Che cosa ha prodotto questo miracolo? «Il senso dell’appartenenza a una comunità, il senso di una direzione di marcia». Ovvero, togliendo il filtro della falsa modestia, la presenza di un leader (la sua presenza).
E se Veltroni resta sempre nel ruolo di cerniera del sindaco-che-dà-consigli (in attesa di diventare leader), D’Alema si cala nei panni prediletti del leader titanico che malgrado le sventure si occupa di lenire le ferite scottanti della caduta, con vigorose iniezioni di orgoglio. Fatto curioso: gli applausi più grandi che riesce a raccogliere, lui (che vorrebbe essere il battistrada di una nuova palingenesi democratica e riformista), li raccoglie quando fa riferimento, sia in forma politica privata, alla storia del Pci. Nel primo caso fa ricorso addirittura alla figura di suo padre: «Mi raccontava che sotto il fascismo, quando qualcuno iniziò a fare giornaletti e volantini, c’erano sempre quelli che dicevano: “Ci vorrebbe ben altro...” ma poi, quando si trattò di andare a sparare, ci andarono quelli che facevano giornaletti e volantini!» (la sala esplode in un boato). Il secondo applauso: «Una sinistra radicale che si rifugia in una fuga individualistica dalle responsabilità non serve a questo Paese!». E ancora, evocando i due senatori dissidenti: «Dicono: “io voto no perché sono contro la missione in Afghanistan, poi magari cade il governo e ne viene un altro di destra che magari va anche in Irak, ma io sono tranquillo con la coscienza”» (ovazione). «Allora io dico che non serve il Partito democratico - dice - che questa sinistra non va bene ce lo ha insegnato già il Pci».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.