Politica

D’Alema ordina: soldati in Libano tra dieci giorni

Alessandro M. Caprettini

da Roma

Dieci giorni, due settimane al massimo per schierare le truppe italiane. Manca ancora il via libera degli Hezbollah, perché non è certo che Hassan Nasrallah conceda il disarmo dei suoi uomini e, ancora, non è chiaro quali saranno le regole d’ingaggio dell’Onu, ma Massimo D’Alema vola a Beirut e assicura i governanti libanesi che Roma è pronta a fare la sua parte.
Prima col ministro degli Esteri Fwazi Salloukh, poi col presidente del Parlamento Nahib Berri e infine col premier Fouad Siniora, il nostro ministro degli Esteri garantisce l’invio di truppe che potranno esser dispiegate entro due settimane. Ma naturalmente, aggiunge, «tempi e modi dipendono in primo luogo dall’Onu» visto che si tratterà di una missione di pace delle Nazioni Unite. E, ancora, aggiunge D’Alema, l’arrivo dipende anche proprio dal governo libanese visto che la risoluzione 1701, varata dopo tanti affanni, prevede che sia l’esercito di Beirut, affiancato dai caschi blu, a riprendere il controllo del sud del Paese. Il secondo corno del dilemma, per il titolare della Farnesina, è comunque pressoché risolto: «Salloukh e Berri mi hanno spiegato che il Libano intende operare affinché al più presto le sue truppe possano muovere verso sud». Ci sono però, per stare alla logistica, alcuni problemi non indifferenti: ponti e strade sono distrutti. Ma al fondo, in realtà, c’è la questione degli Hezbollah e dello stesso esercito del Paese dei cedri (la truppa è quasi tutta sciita a differenza degli ufficiali). Si atterranno a quanto ufficialmente ha deciso il governo, e dunque garantiranno l’osservanza della risoluzione Onu, o ci sono da attendersi altri sviluppi?
L’interrogativo resta inevaso ma D’Alema fa finta di nulla e, dopo aver voluto fare un giro tra le macerie della zona sud di Beirut annunciando, tra l’altro, che la San Marco sarà sabato nel porto della città per scaricare altre 154 tonnellate di aiuti, ci tiene a far sapere ai suoi ospiti che «la guerra è stata una tragedia per tanti civili» e che è ora di uscire rapidamente dal «clima di odio» che si è vissuto troppo a lungo. Apprezza il cessate il fuoco, ma ritiene si debba ottenere di più: «una pace vera» per la quale assicura che l’Italia si è posta in prima fila, ricordando la conferenza di Roma - che è diventata una medaglia che il nostro ministro degli Esteri espone dove e come può - dove furono gettate le basi per la forza d’interposizione.
Si augura naturalmente D’Alema che all’Onu si proceda rapidamente: «Le forze internazionali - dice - devono essere schierate sul terreno il prima possibile, perché questa è la condizione del ritiro israeliano». Ma evita di analizzare i contrasti interni tra cristiani, maroniti, sunniti e sciiti che da sempre martoriano il paese. Né chiama in ballo siriani e iraniani che anche ieri hanno lodato gli Hezbollah e i loro risultati di questi giorni, ottenuti a colpi di missile. E nega infine un’ipotesi circolata di recente, per la quale l’Italia sarebbe potuta esser mediatrice per uno scambio di prigionieri tra Israele ed Hezbollah: «Era una idea di Berri ai tempi della conferenza di Roma, ma lui adesso non si occupa più della cosa e dunque l’ipotesi non è più attuale».
Una esplorazione fruttuosa, quella di D’Alema? Si vedrà. È un fatto che tutte le diplomazie occidentali si muovono in questi giorni tra le capitali del Medio Oriente, tese ad assicurarsi che i loro uomini (oltre agli italiani ci saranno francesi, spagnoli, forse i tedeschi e probabilmente i polacchi) non finiscano per trovarsi tra due fuochi. Naturale che il titolare della Farnesina voglia misurare di persona lo stato delle cose, anche se, di prima impressione, non è che abbia ottenuto più di tanto. Sempre a Beirut, dopo gli incontri con i rappresentanti del governo, D’Alema ha visto il cardinale Etchegaray, inviato speciale del Papa e ha incontrato rappresenti di Ong italiane in Libano. In serata nuovo decollo, direzione Il Cairo.

Dove ha visto il ministro degli Esteri Abul Gheit e dove oggi incontrerà il presidente egiziano Mubarak.

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