Quando nel 1975 Horcynus Orca vide finalmente la luce, si parlò di capolavoro annunciato, di miracolo narrativo, di caso editoriale... Il Leviatano come Linguaggio? Orrido mostro che inganna o seduce lIo, ma specchia e replica la Storia... E la risale nel profondo più di una gigantesca Orca marina - incubo immenso, quasi biblico dramma che rende mitica e sacra ogni parola, delfino o «fera» che abita lo Stretto di Messina; o forse tutta la vita scogliera in metafora, lo «scille cariddi» dogni ondosa e salata coscienza, tempestosa di eventi: «Ma certe volte, si scordava quasi quasi di chiamarsi Ndrja Cambrìa e gli pareva quasi quasi di essere stato inteso sempre Mosè, Mosè marinaro».
Erano anni duri e fertili, per il Romanzo. In Italia, tra il 74 e il 75, uscirono tre opere cruciali: La Storia di Elsa Morante, Corporale di Paolo Volponi; e appunto la ventennale fatica, linterminabile e forse insuperabile work in progress di Stefano DArrigo, Horcynus Orca. Gadda era morto nel 73, lasciando incompiuti entrambi i suoi capolavori, il Pasticciaccio e La cognizione del dolore. Moravia parodiava la crisi stessa del romanzo con Io e lui (1971); Calvino viaggiava per Cosmicomiche e concettuali galassie semantiche; Cassola ci ammanniva vicende amorose sempre più avulse e minimali; Arbasino non scriveva più: riscriveva (Lanonimo lombardo, Fratelli dItalia) così come Pratolini e Bassani, che limavano, manzonianamente, Lo scialo e Il Romanzo di Ferrara.
Al gran ballo dei letterati, sorpresi e forse impreparati a tanto surplus creativo, maremoto espressionista, fu di moda tanto elogiarlo che criticarlo, DArrigo. Nellarco di poche settimane, un profluvio di recensioni saturò giornali e riviste. E dunque chi era, quel sapido, conversevole critico darte che sera tuffato nella folle impresa di reinventare un romanzo (o addirittura il romanzo, il suo ruolo e incanto), romanzando la lingua, drammatizzando lo stile? Ma che soprattutto aveva osato irridere le etichette e le categorie: neorealismo, tradizione, avanguardia? E che in Accattone di Pasolini, nel 61, guarda caso, interpretava la parte di un burocratico giudice istruttore?
DArrigo non aveva consegnato le bozze, nel 61, come eternamente promesso a Vittorini (suo scopritore già nel 60, coi due capitoli anticipati sul Menabò) e poi a Niccolò Gallo, o a tutti i funzionari mondadoriani: le aveva tenute ben strette, riscritte, corrette, impastate, ripensate come uninquieta e visionaria Penelope della Scrittura, che tesse e stesse la sua tela, dalla notte al giorno, in attesa dellEvento in atto della propria Odissea. E I giorni della fera divennero il mastodontico Horcynus Orca.
DArrigo fu - è - perfettamente rimosso. Relegato nei bravi repertori, nei giudiziosi 900 più o meno accademici, colle sue belle righe dedicatorie, è da tempo uno scrittore non più letto - solo studiato, da laureandi e filologi. Dal grande Contini, cauto e circospetto apprezzatore (e che parlò di «siculo-italiano iperbolico»), a Giulio Ferroni, che lo rubrica nella categoria dello «sperimentalismo espressionistico», insieme con Testori, annoverandone un «plurilinguismo ossessivo» che «dà al mito una dilatazione sconfinata, lo trasforma in unescrescenza mostruosa e inarrestabile» - sembra essere proprio la polemica querelle sul linguaggio, a spingerlo, ma anche a bollarlo. Aveva ragione Giuliano Gramigna, a sostenere che lOrca «rompe clamorosamente il quadro moderato della nostra narrativa».
Per squisito paradosso (egli esordì in versi: Codice siciliano è del 1957), DArrigo finì difeso dai poeti: Luzi parlava di Horcynus come «libro deccezione», «che era molto atteso e poi fu demolito molto ingiustamente». Oggi lonore va soprattutto a Walter Pedullà, instancabile tedòforo della sua fiamma narrativa. Nel 2000, ledizione della prima stesura del romanzo, in collaborazione con la fedele compagna di una vita, Jutta Bruto DArrigo (I fatti della fera, Bur); e ora la ristampa del secondo romanzo, Cima delle nobildonne (Rizzoli), uscito nell85, si avvalgono della sua affettuosa curatela, che è quasi un cavalierato, una vivida militanza gnostica: «Si può fare simbolismo col dialetto? Quandè che si supera il confine tra reale e magico? Lassurdo moderno è solo lultima metamorfosi dellApocalisse, minaccia permanente delle epoche di crisi e di transizione. LApocalisse, lOdissea, Le Mille e una notte, i poemi cavallereschi si son dati appuntamento in Horcynus Orca».
Lasciamo dunque come uno strepitoso Moby Dick italico cavalcato dal capitano Achab/Gregory Peck, seppiato in concitati fotogrammi dannata, il gran cetaceo narrativo dellHorcynus Orca, e concentriamoci su Cima delle nobildonne, romanzo non meno visionario ed entusiasmante, radicalmente avvenirista. Pedullà racconta come fu convocato dallamico Stefano, e messo al corrente del nuovo parto: «No, mi disse DArrigo, non è un romanzo storico, cè anche un po di storia, sì, parecchio Egitto, qualche leggenda araba, degli arabi in prima fila, un paio di americani, ma non è la loro storia, semmai la nostra, fatta di ogni nostro passato, compresi loro. Non pensare al personaggio, pensa alla parola che lo nomina. Hatshepsut, come dice la parola egizia che la traduce in italiano, è la prima delle donne, la più elevata, la cima delle nobildonne».
Latmosfera è lucida e arcana, viene da dire: asettica, placata - quanto nellHorcynus ogni pagina era invece ribollimento, magma, maremoto dellanima e della lingua, placenta strappata a un parto... Tra il Landolfi noir, Savinio surreale, Morselli fantascientifico, e il Bulgakov ospedaliero, la «camera operatoria» ma insieme «camera ottica» di Cuore di cane - tutta la descrizione dellintervento per la neovagina nella clinica di Stoccolma è raffinatissimo intreccio tra realtà, fantasia e metafisica: «Lo stupore di quellevento, levento delluomo che mette mano dove solo il Creatore, anche se distrattamente, lha messa, trascorreva con improvvisi brividi nel silenzio dacquario dellanfiteatro». Il Futuro è insomma anacronistico ed ermafrodito - vuol dirci il DArrigo di Cima delle nobildonne - e forse è già passato, tanti secoli fa o domani, questoggi, se come vecchia placenta o neovagina riavvera la Storia. Faraona del Mondo, lanima sconsacrata e rifatta, può almeno tornare pura - per scienza o fede, rigenerarsi, rimeritarci come lunica, possibile, sterile ma fulgida Dea quotidiana».
In tempi asfittici di narratori inesistenti, di presunti romanzieri «postmoderni» o meglio «postpost» (come ironizza il mimetico Arbasino), incoroniamo questi ultimi, guizzanti bagliori dellArte Narrativa. «DArrigo è la dimostrazione di quel che la letteratura possa, una volta impadronitasi del proprio sacerdote - scrisse Giacinto Spagnoletti, altro amico e nobile chiosatore -. È incitamento, ispirazione, necessità? Somiglia molto a una consacrazione: dove arrivano le parole si può ancora procedere, andar oltre. Per le parole non cè mai un termine, come nella vita biologica». E Geno Pampaloni plaude al raddoppiato messaggio vitale: «Leroe mitologico di questa epica è la placenta, la premadre, veicolo di vita tra la madre e lessere nato nel suo grembo, e subito morta, gettata via, non appena questa funzione è esaurita. Come Horcynus, anche questo è romanzo di vita e di morte».
In una lingua atavicamente neonata, capace di trasmigrare dal Passato al Futuro e viceversa, dalla Realtà al Sogno, sorvolandoli come un unico immenso ponte che inghiotte e risputa lorizzonte, il crepaccio, lo «scille cariddi» del Mito e quello della Storia, inguainato o lacerato quanto la costruzione minuziosa e irreale di una neovagina, o forse lincisione, la guarigione col bisturi della nostra stessa anima: «Adesso poteva vedere, quasi fosse lì presente anche lui di persona, la sua Amina esposta nella posizione della pietra da tagliare con le sue intimità a pieno video: le cosce ravvicinate al pube e le gambe contro le cosce, contratta come una grossa rana».
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