Roma - Ha settant’anni e ancora mostra i bicipiti; non ha attori, però inventa il divismo; la sua grandezza industriale e mercantile pare un atto di fede (ma pure di speranza e carità), eppure Cinecittà il 3 e il 4 maggio festeggia il suo compleanno in pompa magna: nell’occasione, il ministro per i Beni culturali Rutelli farà una visita ufficiale al Quadraro, quartiere dove sorgono gli studios e, da teodem convinto, rivelerà alla stampa il futuro messianico degli studi sulla Tuscolana, parlando alla folla dal set di Rome, kolossal americano di modesto impatto, ma (sulla carta) di traino economico potente.
Pare, infatti, che il set del «sandalone» americano diverrà permanente: chi vuole girare un Quo vadis? senza comparse digitali, potrà farlo. Intanto, i soldi necessari a soddisfare gli stipendi dei duecentocinquanta impiegati del vasto complesso (65.000 metri quadrati) dei sedici teatri di posa, stabilimenti, laboratori, uffici e depositi inaugurati il 28 aprile 1937 da Benito Mussolini («La cinematografia è l’arma più forte», intuì lui) li manderanno dall’India i rappresentanti di Bollywood, che con i loro 1.200 film annui hanno bisogno dei set nostrani. Il ministro Gentiloni, a Mombai, nel marzo scorso ha stipulato accordi, per cui il matrimonio bollywoodita s’ha da fare. E, infatti, l’erigenda Festa di Roma, quest’anno all’insegna della cinematografia indiana, in ottobre concilierà il sacro (le intoccabili star indù) col profano (la loro sfilata sul red carpet).
Certo, oggi nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, dove Fellini praticamente campava, ci ambientano Il treno dei desideri, mentre gli studi televisivi dilagano, cancellando la traccia dei primi «si gira», con Alessandro Blasetti dominatore del set e dei cartelloni drammatici di Ossessione, sullo sfondo dei pini refrigeranti lungo i viali, dove adesso s’aggirano quelli del Grande Fratello. Per tacere dei salotti eleganti, con i «telefoni bianchi», agguantati con grazia da Assia Noris, Maria Denis, Alida Valli, dive stupende e mai abbastanza rimpiante. Tuttavia, gli studios di Cinecittà cercano di rimanere all’altezza d’una fama acquisita in sette decenni di gloriosa esistenza (oltre tremila i film girati, tra i quali quarantasette premi Oscar), quando a battere il ciak erano cineasti del calibro di Vittorio De Sica e Federico Fellini, Roberto Rossellini e Luchino Visconti, intanto che l’Italia dei Poveri, ma belli, immortalata da Dino Risi, sognava La dolce vita di felliniana memoria.
Non a caso un grande del cinema, il premio Oscar Martin Scorsese, è tornato sulla via Tuscolana con le sue Gangs of New York, mentre Abel Ferrara vi ha appena concepito le sue Go-go Tales, ora in concorso al Festival di Cannes. Non per niente il Mago di Rimini usava dire: «Per me Cinecittà è il posto ideale, il vuoto cosmico prima del Big Bang». E se la concorrenza delle tecniche digitali si fa agguerrita, ecco il settore «digital» mettersi al passo coi tempi, perché l’imponente struttura nata su quaranta ettari di terreno, dopo che il rogo della Cines di via Vejo costrinse il regime fascista a cercare altri spazi, di fatto è un Moloch a forte vocazione trasformista, che guarda alla globalizzazione, nutrendo fiducia nella nuova legge sul cinema, tesa a dare più spazio ai giovani e alla semplificazione burocratica, ma è anche un Golem, sempre alla ricerca di spazi. Intanto, ha inglobato gli studi sulla Pontina, già di Dino De Laurentiis, uscendo dalle mura di Roma con l’apertura degli studios marocchini di Ouarzazate: segno che la recente ripresa del cinema italiano genera fiducia.
E come sembrano lontani i tempi in cui il sottoproletario Stracci, comparsa assunta da Pasolini per la parte di uno dei due ladroni, crocifisso a fianco di Cristo sul Calvario, nel film Ricotta, morì d’indigestione, dopo essersi abbuffato di ricotta sul set, visto che passava ai suoi parenti, poveri come lui, il cestino sindacale del pranzo. Oggi i protagonisti della tivù al bar di Cinecittà neanche si vedono: stanno perennemente a dieta e si portano la frutta da casa.
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