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La Dakar cambia strade, ma semina sempre morti

Dalle dune e la sabbia dell'Africa, alle montagne e le steppe dell'Argentina e del Cile, ma, purtroppo, il risultato non cambia: alla Dakar si continua a morire. Questa volta è toccato al motociclista francese Pascal Terry, 49 anni, trovato privo di vita al km 197 della seconda tappa, da Santa Rosa a Puerto Madryn (Argentina), a una quindicina di metri dalla sua Yamaha 450 WRF e a circa 300 metri dalla strada principale. Domenica sera, Terry aveva avvertito tramite il sistema satellitare di essere rimasto senza benzina, ma di aver poi risolto il problema grazie a un altro concorrente. Da allora, però, nessuna notizia, anche se le ricerche sono iniziate solamente lunedì 5 gennaio, fino al ritrovamento del cadavere avvenuto l’altra notte. Secondo gli organizzatori «Terry si trovava in un punto di difficile accesso a causa della vegetazione. Si era tolto il casco e aveva cercato riparo all'ombra. Vicino al corpo sono state ritrovate le scorte di cibo e acqua». Una morte piuttosto misteriosa, quindi, che soltanto l'autopsia, che verrà effettuata all'ospedale di Santa Rosa, potrà chiarire.
Anche se, come sembra, non si è trattato di un classico incidente di gara, la Dakar si conferma dunque pericolosissima: in 30 edizioni, sono già stati registrati 56 morti, tra piloti, addetti ai lavori, semplici spettatori. Nata nel 1979 per volontà del francese Thierry Sabine, schiantatosi pure lui con l'elicottero durante una tempesta di sabbia in Niger nel 1986, la corsa africana ha mantenuto sempre il nome "Parigi-Dakar", anche se nel corso degli anni il percorso è stato cambiato più volte, fino al trasferimento in Sud America dell'edizione 2009, dopo che gli organizzatori erano stati costretti all'ultimo momento ad annullare la Dakar 2008 per gli scontri civili in Africa. Una scelta quasi obbligata, che ha però snaturato del tutto una corsa ormai anacronistica, che già da parecchi anni aveva perso il suo fascino iniziale. Secondo Sabine, la Dakar doveva essere una sfida estrema in luoghi pressoché sconosciuti fuori dall'Africa, a bordo di qualsiasi mezzo a motore, moto, auto, camion, quad. A metà degli anni Ottanta la corsa in mezzo al deserto raggiunse il suo apice di popolarità, via via scemato con l'avvento dei sistemi satellitari, che hanno trasformato la Dakar da affascinante avventura in una sorta di corsa di velocità, in mezzo però ai sassi e alla sabbia.
Diventa così piuttosto difficile capire e spiegare perché tanta gente - professionisti e normali appassionati - continui a sfidare la morte per un qualcosa apparentemente privo di senso. Ma chi ha corso la Dakar, non ne può fare a meno. Come il grande Fabrizio Meoni, morto nel 2005 a 47 anni, dopo aver vinto due edizioni: Fabrizio, che in Africa aveva anche contribuito a costruire una scuola, amava ripetere che la passione per una gara così non si può spiegare, ce l'hai nel sangue. Lo pensava anche Pascal Terry, che il giorno della partenza da Buenos Aires aveva dichiarato: «Sogno di poter partecipare alla Dakar fin dall'inizio della storia del rally. Sarà una gara eccezionale, questi posti sono favolosi».

L'amico Pascal Gilbert, con il quale aveva disputato una Dakar in auto, aveva cercato di dissuaderlo: ma la ragione nulla può contro la passione.

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