Dall’estasi al disastro: la rivoluzione sessuale e le sue vittime infelici

Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia. O detto altrimenti, nella versione proustiana: i paradisi migliori sono quelli perduti. Oppure «il mondo uscente non lascia eredi, solo una vedova incinta», come scrive Martin Amis nel suo ultimo romanzo La vedova incinta, appena pubblicato in Italia da Einaudi (pagg.430, euro 22), uno dei libri più malinconici e struggenti e dilanianti degli ultimi decenni, un capolavoro.
Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia: «Con l’approssimarsi del cinquantesimo anno, cominci a sentire che la tua vita si diluisce, e continuerà a diluirsi, fino a ridursi a niente. E ogni tanto ti dici: È andata un po’ troppo in fretta. È andata un po’ in fretta. A seconda dell’umore, potresti anche volerla mettere in termini più decisi. Del tipo: EHI!! È andata un po’ TANTO IN FRETTA CAZZO!!! Poi i cinquanta arrivano e se ne vanno, e i cinquantuno, e i cinquantadue. E la vita si addensa di nuovo. Perché in te adesso c’è un’enorme e insospettata presenza, come un continente inesplorato. Parlo del passato».
Quant’è bella giovinezza, e il passato qui è quello del protagonista, il ventenne Keith Nearing. Siamo in Italia, negli anni Settanta, in un castello di campagna affittato da un gruppo di ventenni, dove si svolgono lancinanti amori, si dipanano belle ossessioni, si vivono educazioni sentimentali e rivoluzioni sessuali: pagine tanto ironiche e leggere e dense e colorate di vita da sembrare un Arbasino inglese, un Fratelli d’Italia scritto da un inglese, e anche un viaggio in Italia alla vecchia maniera di Byron, Goethe o Stendhal. Tanto passano i decenni e da noi non cambia niente, «gli italiani sono dei mitomani. La realtà a loro non basta», in anni in cui la contraccezione e l’aborto sono ancora illegali e «gli italiani risolvono le questioni con l’ipocrisia» (e non è che sia cambiato molto, visto che oggi, nel 2011, possiamo abortire un feto ma per scartare un embrione malato dobbiamo andare all’estero perché è già una persona...).
Quant’è bella giovinezza, con tutte le palpitazioni d’amorosi sensi tra Keith, la bellissima Scheherazade (misure 95-58-84), la non-ancora-bella Lily (misure 86-64-86), o la Gloria dal portentoso fondoschiena. Non era il maggio odoroso di Leopardi ma se ne sente il profumo, cioè «era l’estate del 1970, e ancora il tempo non li aveva ridotti in poltiglia», e quindi si pensava solo all’amore e ai corpi e si parlava molto di sesso formulando interessanti teorie sessuali, spesso sensatissime, come quella secondo cui «i seni scimmiottano il culo», sicché sono tanto più attraenti quanto più ricordano il posteriore, ossia «i seni dalle sembianze di culo addolciscono l’amara pillola della posizione del missionario».
Quant’è bella giovinezza, e «quanto scorre lento il tempo quando hai solo vent’anni», e tuttavia «ormai Keith correva veloce sul direttissimo dei cinquanta, dove i minuti spesso si trascinano ma gli anni rotolano l’uno sull’altro e scompaiono». Quindi, nello stesso romanzo, sotto forma di raggelanti intervalli, il dolce ricordo è annientato dal presente. Siamo a Londra, venti e trent’anni dopo, quando la felicità è finita e non resta altro che «il bisogno di sapere che fine hanno fatto tutti», la spietatezza della vita che una volta vissuta non può mai essere rivissuta né corretta, l’illusione della bellezza sostituita dalla verità, la tristezza della vedova incinta.
Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, e c’è un momento in cui «quando superi il mezzo secolo, la carne, il rivestimento della persona, inizia a assottigliarsi. E il mondo è pieno di lame e di punte. Per un anno o due le tue mani sono graffiate e coperte di escoriazioni come il ginocchio di uno scolaro. Poi impari a proteggerti. E continuerai a farlo finché, verso la fine, non farai nient’altro - nient’altro che proteggerti. E mentre impari a farlo, qualunque chiave è un chiodo, e la fessura delle lettere è un’affettatrice, e l’aria stessa è piena di lame e punte». È quando lo specchio si rifiuta di restituirti la tua immagine, e dopo una certa età non sai più che aspetto hai, e «disinnamorarci del nostro riflesso è il nostro comune destino».
Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, e quanto è brutto invecchiare, oggi più che mai, poiché invecchiare è da sfigati. Perché non esistono più i vecchi di una volta, «le persone invecchiano diversamente, sembrano giovani in circolazione da troppo tempo». Ha ragione Amis: bisognerebbe invecchiare quando si è giovani, invecchiare da vecchi è terribile: «La vecchiaia non è roba per vecchi. Per far fronte alla vecchiaia occorre essere giovani - giovani, forti, e in condizioni eccellenti, straordinariamente agili e con ottimi riflessi».
Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, e allora alla fine si può buttare giù qualche regola di vita, tipo «regola numero uno: la cosa più importante che abbiamo è la nostra data di nascita. Che ci colloca dentro la Storia. Regola numero due: prima o poi ogni vita umana si fa tragedia, talvolta prima, sempre poi. Seguiranno altre regole».

Non sempre per vivere peggio, perché a forza di pensarci, aspettando la vecchiaia, potremmo avere buoni motivi per non smettere di fumare, per esempio sostituendo i moniti salutisti sui pacchetti di sigarette con questo pensiero pratico: «I non fumatori vivono sette anni più a lungo dei fumatori. E indovinate un po’ quali sette». Insomma, signore e signori, lasciate fumare la vedova incinta, chi vuol esser lieto sia e leggete Martin Amis: del doman non v’è certezza, dei grandi libri sì.

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