Dall’Unione Latina alla disunione europea nel nome dell’euro

Caro Granzotto, vorrei ricordare che per iniziativa dell’Imperatore Napoleone III il 23 dicembre del 1865 Francia, Belgio, Italia, Svizzera e più tardi la Grecia, la Finlandia e persino l’Argentina (non aderì l’Inghilterra, anche allora diffidente!) firmarono una convenzione monetaria che diede vita alla «Unione Latina» e alla prima moneta comune europea. E sottolineo «comune» e non «unica», come l’euro. Il principio era semplice: le monete dei Paesi dell’Unione dovevano avere lo stesso peso in oro, conservando però il loro nome - franco, lira eccetera - e il loro simbolo nazionale. E potevano circolare liberamente in tutti i Paesi della convenzione, così che in Francia si poteva pagare col franco svizzero o in Italia con la dracma greca. L’Unione funzionò in modo soddisfacente per diversi decenni e cessò di essere, messa in crisi dalla Grande guerra, l’1 gennaio del 1922. Questo precedente mi spinge a fare una considerazione forse ingenua: i nostri «saggi» inventori dell’euro non avrebbero dovuto studiare più attentamente la storia e informarsi prima di prendere decisioni irreversibili? Decisioni che costringono oggi i massimi responsabili politici europei a trovare rimedio a certe difficoltà/lacune che erano state evidenziate e superate da oltre un secolo e mezzo.
Bruxelles

Se ben ricorda, caro Rossetto, gli ostetrici che armati di forcipi procedettero al parto dell’euro erano come invasati. Dominati, ossessionati da quell’idea fissa. Uno per tutti: Romano Prodi. Escludo che il Professore, com’è chiamato, ignorasse l’esperienza dell’Unione latina, anche se non si può mai dire. Di sicuro sapeva che nel corso della storia, e a partire dalla dracma della Grecia di Platone, ogni tentativo di mettere in piedi unioni monetarie o di imporre monete uniche è sempre fallito. Hanno retto il colpo le unioni di piccolo cabotaggio: il Franco Cfa dell’Africa francofona; il dollaro australiano spendibile, e capirai, anche nel Kiribati; il dollaro neozelandese che ha corso legale anche nell’isola di Pitcairn, quella di Fletcher Christian e degli ammutinati del Bounty; o il franco svizzero, moneta corrente anche nel Liechtenstein. L’Unione latina, di sicuro il più eminente e fortunato esperimento in quel campo - anche se come lei, caro Rossetto, giustamente ricorda non era moneta unica come l’euro, ma comune, che è tutto un altro paio di maniche - non resse allo sconquasso della guerra ’14-18. Però, anche senza quel conflitto, trattandosi di monete d’oro o d’argento (intercambiabili proprio perché rispettavano il medesimo standard), un po’ per via delle variazioni del valore dei due metalli, un po’ per l’irrompere della cartamoneta, non avrebbero comunque avuto vita lunga.
È evidente che, decisi, costi quel che costi, a varare l’euro, i suoi «inventori» non tennero in conto questi precedenti: se lo avessero fatto, maneggeremo ancora la vecchia e cara lira e non dovremmo puntellare la moneta unica con 750 miliardi di euro. Cifra di tale portata che per esprimerne l’equivalente in dollari si deve ricorrere a un termine che io credevo frutto della fantasia di Walt Disney per indicare le ricchezze di Paperon de’ Paperoni: il trilione. Come a dire un Tir di milioni.

Bruciato in un battibaleno e - ora ci dicono - servito a niente, né a rafforzare l’euro né a dare una calmata alle Borse. Ma in che mani siamo, caro Rossetto? E dove ci siamo cacciati, con quell’euro che secondo Prodi ci avrebbe aperto la via dei giardini dell’Eden?

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