Controcultura

Da Danzica ad oggi il dubbio è lo stesso. Quando combattere?

Un tempo rischiare la vita per un ideale o un Paese era la norma. Ora torna attuale

Da Danzica ad oggi il dubbio è lo stesso. Quando combattere?

La famosa espressione «Morire per Danzica» è tornata più volte alla ribalta, in questi ultimi tempi, di fronte agli avvenimenti che insanguinano il continente europeo con la guerra russo-ucraina e di fronte alle scelte del governo italiano di sostenere le posizioni dell'Alleanza Atlantica. Quella espressione, per la verità, c'entra poco con gli avvenimenti odierni se non per la sua forza evocativa che richiama gli orrori della Seconda guerra mondiale e per il fatto che, subliminalmente, suggerisce di riflettere sul bilancio costo-benefici di una scelta politica o politico-militare.

Fu coniata, sembra, nel 1939 da Marcel Déat, un socialista poi divenuto collaborazionista ai tempi di Vichy, per contestare la prospettiva, sulla quale discutevano le diplomazie, di un possibile intervento militare per difendere, contro le pretese di Hitler, la città di Danzica, contesa dalla Polonia e dalla Germania. Déat sosteneva che fosse possibile immaginare uno scenario bellico al fianco dei polacchi purché in difesa delle libertà e per il mantenimento della pace, ma concludeva con un inequivocabile: «morire per Danzica, no!». Egli, sotto sotto, suggeriva che le ambizioni di Hitler sarebbero state soddisfatte dall'annessione di Danzica e che le ombre della guerra si sarebbero dissolte. Sbagliava, com'è noto. E di grosso.

Quella locuzione, «Morire per Danzica», ha avuto, tuttavia, fortuna nel linguaggio politico e, oggi, in Italia, è diventata popolare fra i pacifisti e fra quanti contestano le scelte governative di fronte all'aggressione russa nei confronti dell'Ucraina. La si può, tale posizione, comprendere, da un punto di vista ideologico, ma certo non apprezzare da un punto di vista storico-politico sia perché l'odierna situazione geopolitica è diversa rispetto a quella della fine degli anni Trenta sia perché, oggi, sono in gioco gli stessi presupposti della nostra civiltà e delle radici cristiane dell'Occidente.

Del resto, per tornare alle questioni di casa nostra, alle origini stesse del Risorgimento c'è da ricordare la vicenda dell'intervento piemontese in Crimea nel 1854 che, voluto dalla genialità del Conte di Cavour, consentì al piccolo regno sabaudo di porre il «problema italiano» all'attenzione europea e di inserire lo Stato piemontese in quella che lo storico britannico A.J.P. Taylor chiamò «the struggle for mastery in Europe». In un certo senso, all'epoca, si optò e uno splendido libro, un vero e proprio classico della storiografia, Il Risorgimento e l'Europa. L'alleanza di Crimea (1968) di Franco Valsecchi lo racconta in dettaglio in pagine suggestive per un ideale, pur se non esplicitamente espresso, Morire per Sebastopoli o, se si preferisce, Morire per la Crimea. Fu una scelta, in termini di realismo politico, certamente saggia che segnò davvero una svolta nella storia.

Morire per la patria o per la libertà, in altri tempi, era considerato un atto doveroso, un sacrificio necessario. Il Risorgimento, e più in generale la storia contemporanea, sono pieni di esempi di generosità disinteressata. Si pensi al caso del conte Santorre di Santarosa e del generale Giuseppe Rosaroll che perirono, all'inizio degli anni Venti del XIX secolo, combattendo eroicamente per aiutare i greci a liberarsi dal dominio ottomano insieme ad altri volontari e intellettuali europei, primo fra tutti il poeta George Gordon Byron. E si pensi, ancora, più in generale, ai tanti intellettuali e artisti che, durante la Grande Guerra trovarono la morte sui campi di battaglia, da Charles Péguy a Ernest Psichari e a quanti, all'epoca della guerra civile spagnola, verso la metà degli anni Trenta del Novecento, non esitarono a imbracciare le armi in difesa di ideali nei quali credevano e ai quali si erano votati. Non ci si poneva neppure la domanda se fosse opportuno, e giusto oppure no, rischiare di morire per qualcosa che si riteneva moralmente giusto.

Molta acqua è passata, da allora, sotto i ponti e molte cose, a cominciare dalla scala dei valori, sono cambiate. Gli stessi concetti di nazione, di nazionalismo e di patriottismo non sono più, in un mondo globalizzato, quelli di una volta. Il contenimento delle spinte bellicistiche e neo-imperialistiche e quello del mantenimento della pace come bene supremo sono preponderanti. Ma, detto questo, va anche detto che, di fronte alle violazioni del diritto internazionale, non è lecito, né da un punto di vista intellettuale né da un punto di vista morale, tenersi da parte. È necessario schierarsi in difesa dei valori e dei principi che ispirano la nostra civiltà cristiana, europea, occidentale.

Ed è necessario rendersi conto che l'espressione morire per ha una connotazione retorica e non già bellicistica: è la faccia di una medaglia che, sull'altro verso, porta incise le parole pace giusta e collaborazione internazionale.

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