Riccardo Signori
Parla come fosse ancora in pedana. Folletto incantatore, pirotecnico, funambolico, la fantasia al potere. Novantanni? Massì, cosa saranno mai davanti alleternità dei ricordi. Dario Mangiarotti è il più grande di famiglia. Più grande nel senso degli anni. «Perché in pedana ero un piccoletto, un metro e 65. Contro certi stangoni da un metro e 90 era un bel daffare. Dovevo fare il fantasista per necessità». Famiglia che nello sport ha nome nobile e pedigree quasi inarrivabile. Cera il papà Giuseppe. «Luomo che ha reinventato la scherma: allora era statica e lui la fece diventare dinamica». E quando Dario parla del padre, torna il ragazzino con gli occhi grandi che ritrova la figura di riferimento. Tutto quel che ha fatto o toccato è, ed era, straordinario. Poi ci sono i fratelli: Edoardo, oggi 86 anni, un monumento nel mondo dello sport e della scherma. Noblesse oblige in tutti i sensi. E infine Mario, 85 anni, artista delle pedane olimpiche passato alla cardiologia.
Domani Dario compirà novantanni, ieri è stato festeggiato nella sala darmi di famiglia, uno dei ritrovi cult dello sport milanese, fondata dal padre ed oggi gestita da Carola, la figlia di Edo. Ricorrenza da non dimenticare. Per ritrovare una vita tra affondi, attacchi e contrattacchi. Anche oggi che letà consiglierebbe la contemplazione, e gli acciacchi infastidiscono. «Macché!», quasi strepita Dario. «Io insegno ancora: a Lecco e a Milano. In fondo ne sono costretto perché lo sport non mi ha lasciato un soldo. Quando vedo circolare milioni a centinaia, penso a uno come me che deve ancora lavorare per vivere. Invece oggi i giovani non hanno voglia di alcun sacrificio. Pensi che non ho nemmeno più la pensione della Sportass. Ho scritto al Coni. Ne ho ricevuto una bella lettera di risposta, ma la pensione non arriva più».
Così finiscono i nostri eroi lontani dello sport. Un tempo i fratelli Mangiarotti erano alfieri delle pedane. Dario campione della spada nella quale ha vinto titoli italiani e mondiali, a squadre e nellindividuale. Edo fu campione delle tre armi. «Lunico schermidore che poteva fare otto gare in otto giorni e cambiando specialità. Era uno stuzzicandenti». Dario ricorda il fratello, con laffetto di un compagno di belle storie. Una su tutte. Quella volta che si trovarono insieme sul podio olimpico di Helsinki 52, infagottati in due vestaglie bianche («Sembravano cappottini») a sventolare le conquiste: oro Edo e argento Dario nella spada individuale, dopo aver vinto loro a squadre. Narra la leggenda, ma non solo quella, che Dario nella finale passò una vittoria a Edo. Nella spada talvolta capita. E quella volta serviva per lanciare lasso di famiglia verso loro. Ma Dario smentisce. «No, quando ci incontravamo erano duelli leali. Ma è vero che tutto dipese da me: sconfissi lo svizzero Zappelli, affrontai per ultimo il lussemburghesde Buck che aveva sei vittorie. Se lo battevo, Edo vinceva loro ed io largento. Se perdevo, Edo andava allo spareggio. Vinsi io. E Ciro Verratti, allora inviato per il Corriere della Sera, scrisse: sulla lama di Dario si è decisa unOlimpiade». Eppure nella foto depoca Dario sembrava con le lacrime agli occhi. «Piangevamo tutti e due perché pensavamo a nostro padre, era una vittoria per lui. Grande soddisfazione, come quella volta che ci vide tutti e tre in nazionale: ai mondiali di Stoccolma 51». Anche Edo, che era corrispondente della Gazzetta dello Sport, scrisse qualcosa di quella storia. «Un momento esaltante, ci abbracciammo con Dario: sono fatti che si vivono una volta sola. Quella vittoria fu la più significativa e bella».
Ricordi che si inseguono. E Dario che te li butta lì. «Destate mio padre ci teneva in allenamento, a modo suo. Partivamo da corso Matteotti a piedi: 32 chilometri di maratona per arrivare a Renate nella casa di campagna. La mamma andava in treno e ci aspettava con il pranzo pronto. Oppure facevamo la gita in bicicletta. Scalavamo tutti i passi: Tonale, Costalunga, Pordoi. Alla sera dormivamo in un alberghetto e il giorno dopo altri 100-120 km». Eppoi quelle volte che li portava a lezione di boxe da Erminio Spalla, lex campione dei pesi massimi. O quellaltra. «Un torneo al Cairo. Mi vennero i crampi al terzo incontro. Mi lasciarono tempo. Un medico mi prese, mi portò al ristorante. Mi fece ingoiare il sale di due-tre saliere da tavola, mi fasciò le gambe con garze e mi rispedì in pedana. Vinsi, ma poi svenni». Altre storie, altri tempi.
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