Un secolo fa non si stava tanto meglio di oggi se Edmondo De Amicis sentì la necessità di pubblicare nel 1905 una guida al parlare e scrivere correttamente. Le minacce portate alla lingua erano diverse, certo, ma a parte l'analfabetismo e i dialetti ancora dominanti, litaliano era già esposto alle corruzioni degli esotismi e dell'uso comune. L'autore del libro più letto dalle legioni di studenti dellItalia post-risorgimentale non scrisse tuttavia un manuale, né una grammatica pedante, ma unopera divertente e originale, dal titolo L'idioma gentile (ora riedito da Baldini Castoldi Dalai, pp. 442, euro 14), in cui capitoli descrittivi si alternavano a racconti in prima persona, aneddoti e dialoghi tra i protagonisti di una folla di «mal parlanti».
Questo repertorio di bozzetti e scene teatrali presentava le miserie della loquela che, ieri come oggi, contagiano tutti o quasi, dal professore allo scrittore, dalloratore allo studente. Il parlare, scrive De Amicis, è un banco di prova sui tic e le manìe di ciascuno, un esame feroce che può condannare anche allisolamento sociale. Prendiamo quelli che quando aprono bocca «perdono ogni vivacità dello spirito» al punto da estenuare con le loro lente tiritere anche il più paziente interlocutore: «Ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno scudo, e par che la posino l'una dopo l'altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi». O quelli «che cercano di nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole, assordandoti con un precipizio di parole», mangiandosi «le desinenze verbali di cui non sono sicuri» e confondendo «le frasi dubbie con l'accompagnamento di una specie di rantolo catarrale». O quelli ancora che ricorrono agli stratagemmi più industriosi per uscire indenni dalla lotta con l'italiano, andando avanti «a furia di intercalari e di luoghi comuni», sciorinando «ma», «però», «e già» e tutta la sterminata babele di diversivi in soccorso dei poveri della parola. Tra questi, nella caricaturale galleria allestita da De Amicis, si distingue il cosiddetto «Signor Coso», così soprannominato per il suo ricorrere all'espressione eletta a succedaneo di ogni altra. Questa, la forma del suo discorso-tipo: «Sai, questa mattina ho veduto coso, laggiù... Dice che per quell'affare... tu sai... niente; salvo il caso... ma neanche nel caso... Tu m'intendi».
Ma il peccato opposto non è minore. Anzi, se la sciatteria è «ridicola», l'affettazione è «ridicola e insopportabile». Si pensi ai leziosi che fanno sfoggio di vocaboli poetici o disusati ed evitano locuzioni o costrutti comuni, perché troppo «volgari». Certo, si tratta di una tipologia più ricorrente al tempo del libro Cuore, perché, a dirla tutta, oggi di «paladini di Nostra Santa Lingua Immacolata, ritti sulla rocca sacra del Purismo» se ne contano pochi. De Amicis si beffa ad esempio di tale professor Pataracchi che condusse una personale battaglia contro chi contaminava «l'idioma nativo» con forestierismi o qualsiasi forma del parlare quotidiano. «Dirgli una parola o una frase illecita era come forargli le carni con un punteruolo d'acciaio», ogni trasgressione al suo dizionario rappresentava un delitto di lesa maestà. Sbavature e misfatti della lingua venivano liquidati come «sconce sgrammaticature segretariesche», «turpi granciporri» o «stomachevoli parole muschiate».
Estinto o quasi quest'esemplare, conviviamo oggi con una macchietta più attuale sul teatro delle amenità linguistiche: «Il falso monetario». Nel suo magazzino, prolifera «una tesoreria di monete false»: parole storpiate, espressioni a vanvera, citazioni proverbiali sballate, come «la spada d'Empedocle» o «l'orecchio di Dionisia». «Anarchie del vocabolario» che si potranno schivare studiando la grammatica, leggendo i grandi scrittori e tenendo il vocabolario sul comodino, a mo di livre de chevet, come faceva Teofilo Gautier. In fondo, sapersi esprimere non è esercizio impossibile: basterebbe evitare dialetti, trascuratezze e stereotipi e il più è fatto.
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