"De Benedetti? Per colpa sua a cinquant'anni ho perso il lavoro"

Aumentano le adesioni all’appello lanciato dal Giornale: no a chi dà lezioni dopo aver saccheggiato il Paese. Per firmare: nofurbi@ilgiornale.it

"De Benedetti? Per colpa sua  
a cinquant'anni ho perso il lavoro"

La prima e-mail arrivata ieri in redazione (a fine giornata saranno quasi 3mila) è delle 5.41 del mattino. Come tanti imprenditori che fanno «i salti mortali per sopravvivere», manager che «si ammazzano di lavoro» e semplici operai, anche il mattiniero professionista ha raccolto l’appello del Giornale dall’Italia che produce, quella che si ribella al «Paese dei furbi», come chiede il presidente di Assolombarda Michele Perini nel suo disperato grido di chi vuol «cambiare registro e tornare a un Paese normale dove c’è chi governa e chi porta idee alternative e proposte intelligenti».
C’è anche Raoul, libero professionista di Pavia, che vorrebbe uscire dalla trappola preparata da «certi personaggi che usano la magistratura come strumento politico e i media per infangare e diffamare». Il volto e il nome è quello di Carlo de Benedetti, patron del gruppo Espresso-Repubblica, che secondo Mirco «si è arricchito con manovre clientelari assieme a certi politici» mentre «io da 40 anni mi alzo alle 6 del mattino». «Io invece faccio questo mestiere da trenta - ribatte Walter - e lavoro 10 ore al giorno, festivi compresi, per pagare le tasse e tappare tutti i buchi. E a me restano solo pochi spiccioli».

Sono loro le voci finora silenziose del Paese che «ha sempre lavorato, rischiando in proprio, che ha studiato e si è fatto valere» e che è stufo di chi invece «ha saccheggiato e divorato il raccolto degli altri - scrive Vito - come un focolaio di parassiti». E il ritornello è sempre lo stesso, il ricordo torna a 17 anni fa e poco più. «Quando il predatore CdB - scrive un lettore canavese - passò da Ivrea, e noi ancora qui a leccarci le ferite». C’è Pier Luigi che cita il Corriere della Sera di allora, 15 febbraio 1992, quando un Franco Marini ministro del Lavoro annunciava trionfalmente che gli esuberi Olivetti sarebbero stati «appena 1.700 anziché 2.200» e che in mille sarebbero stati «assunti dalla Pubblica amministrazione». È stato «l’unico caso», scrive il piccolo imprenditore in cui lo Stato «ha assorbito esuberi da un’azienda privata».

C’è Bruno G, che invece ricorda il De Benedetti che «va in televisione dopo essere stato arrestato, dichiara spontaneamente di aver truffato lo Stato per salvare l’azienda» e poi viene «rimesso in libertà senza che nessuno abbia istruito un processo». Era il 17 maggio 1993, Repubblica titolò «De Benedetti confessa: Anch’io pagavo tangenti - drammatico memoriale consegnato nelle mani dei magistrati». E due giorni dopo l’Ingegnere ripetè: «Se dovessi rifare tutto di nuovo, lo rifarei: pagherei le tangenti...». Un «sacrificio» che oggi non basta nemmeno ai suoi attuali dipendenti, stanchi del suo modo di fare impresa e soprattutto «dei giochetti e dei furbetti di Montecitorio». «Lavoro alla Sorgenia spa dal 2001 - scrive il quarantenne M.M. - da quando cioè la legge Bersani liberalizzò l’energia. E da allora quanti finanziamenti... Anche se siamo alle sue dipendenze, non c’è nessuno né qui né alla Finegil (gruppo editoriale, ndr) che lo appoggi». C’è Michele, dipendente del gruppo Agile, che a 50 anni si trova «con una professionalità sulle spalle, senza stipendio da due mesi a mendicare lavoro grazie all’Ingegnere» che negli anni Novanta aveva ceduto la società a Getronics, che poi l’aveva rimpallata a Eutelia e poi Omega «senza alcun piano industriale».

Perché, come ricorda Tommaso, ingegnere marchigiano, de Benedetti «è solo un uomo d’affari», altro che imprenditore. «Lo sanno bene - insiste - i milioni di partite Iva, professionisti, artigiani e commercianti che ogni giorno aprono bottega senza sapere se la propria azienda riuscirà a sopravvivere, vessata dalle banche e dai poteri forti».


Ma c’è chi, come Antonio (che di lavoro fa il consulente) ricorda quelle «poco commendevoli campagne stampa lanciate da Repubblica - negli anni Ottanta e Novanta - in favore del banchiere Michele Sindona (“l’uomo che avrebbe arricchito gli italiani”) e di Ciriaco De Mita, “l’intellettuale della Magna Grecia” che doveva trasformare l’Italia nella Svizzera del Mediterraneo». E che oggi si chiamano Veltroni, Franceschini e Bersani...
felice.manti@ilgiornale.it

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