Carlo De Benedetti tende a unire il colpo di mano con lo stile pomposo da padre della Patria. Sulla vicenda M&C, il finanziere torinese afferma che la società non è andata bene per colpa della crisi del 2008, ma ora si sta procedendo così da garantire gli interessi di tutti gli azionisti. Quando, a metà degli anni ’90, ammise il fallimento del tentativo di salvare l’Olivetti, De Benedetti disse: era un’impresa ormai distrutta, il mio fu un gesto disperato per salvarla. Quando all’inizio degli anni ’80 entrò nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e ne uscì rapidamente rimborsato generosamente per il disturbo, fece sapere in giro che aveva in mente l’interesse generale cercando di recuperare una banca patrimonio della finanza italiana. Se si leggono le sue dichiarazioni di rilanciatore dell’industria agro-alimentare quando trafficava con Romano Prodi per comprarsi la Sme, si rimane affascinati dalle sue visioni. Quando si va a vedere che cosa ha combinato con le aziende che mise insieme (e per fortuna non gli andò a segno il colpo Sme) si vede la mancanza di un disegno industriale e la più o meno rapida, totale, retromarcia compiuta.
De Benedetti fa parte di quel girone di imprenditori che si lanciano negli anni Ottanta e vengono in qualche modo tenuti a distanza da un establishment oligarchico fondato su Fiat e Mediobanca. Sono storie diverse quelle di Raul Gardini e di Salvatore Ligresti, di De Benedetti e di Silvio Berlusconi. E prima, un trattamento simile al loro l’aveva ricevuto anche un grande come Adriano Olivetti. In comune hanno però che - per quanto poi riescano a intrecciare rapporti con Enrico Cuccia, e siano accompagnati da qualche benevolenza da Gianni Agnelli - a lungo rimangono outsider che non possono contare su una vera integrazione nel sistema dei poteri forti.
De Benedetti in parte il suo destino se lo sceglie a metà degli anni Settanta, quando da presidente degli industriali torinesi (in conto Gilardini) viene chiamato a fare l’amministratore delegato della Fiat e ne viene presto allontanato perché sospettato di volersi creare un potere autonomo nella società. La vicenda determina una sorta di esclusione «a vita» dall’establishment oligarchico. Gli altri grandi degli anni Ottanta - a parte il povero Gardini che infilatosi nella vicenda Enimont ne esce cadavere - reagiscono alla freddezza del sistema buttandosi a testa bassa, tra le mille trappole che la realtà italiana riserva agli outsider, a creare grandi realtà economiche che modificano il panorama italiano e che alla fine li portano a definire quel nuovo «establishment aperto», caratterizzante oggi gli scenari nazionali.
De Benedetti sceglie un’altra via: niente testa bassa nell'attività economica o anche in quella politica come strumento per affermare la possibilità del nuovo di crescere in Italia. No, lui sceglie l’improbabile strada del finanziere spericolato che fa il moralista. E si incontra con uno splendido esemplare di questa cultura, il giornalista corsaro Eugenio Scalfari che, in cambio di qualche modesta miliardata di lire, rinuncia ai principi di editore puro. Nasce così un mix editoriale-finanziario-lobbista politico che combina moralismo e spregiudicatezza. In parte questa scelta è indovinata perché si sposa con un establishment politico ed economico sempre più asfittico, incapace di motivarsi e regolare i conti autonomamente, che cerca spesso nella coppia Carlo-Eugenio un decisivo appoggio (così Enrico Berlinguer, Ciriaco De Mita, Oscar Luigi Scalfaro, Romano Prodi). Ma è una tendenza che ha nel suo cuore proprio «l’impossibile contraddizione» massima spregiudicatezza-massimo moralismo che alla fine non può garantire iniziative concrete.
I testoni che lavorano a capo chino, invece, appaiono in modo sempre più evidente alla società italiana, quelli che una via la indicano. In Italia come in ogni società aperta, c’è naturalmente bisogno di opposizione e pareri diversi, ma c’è la sensazione che il mix di cui sopra stia arrivando a una sua prova della verità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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