De Dominicis e l'arte di ribellarsi alla critica

È stato l'unico autore del suo tempo a concepire l'opera come assoluto. E come sintesi del passato

De Dominicis e l'arte di ribellarsi alla critica

Nessun dubbio che le personalità di maggior interesse, nella pittura italiana della seconda metà del secolo scorso, dopo Burri e Fontana, furono Domenico Gnoli e Gino De Dominicis. Negli anni in cui la funzione critica determinò la costruzione di gruppi e movimenti del tutto arbitrari, come l'Arte povera e la Transavanguardia, non come riconoscimento di una visione estetica, espressione di creatività individuale, Gino De Dominicis rivendicò il primato dell'artista sul critico e sul teorico. Arrivato a un largo riconoscimento per le sue invenzioni, ebbe uno scatto di orgoglio negli anni della nostra frequentazione più intensiva e della nostra amicizia.

Era il 1995, ed egli si identificò con le sue opere rifiutando di farle diventare strumenti di un disegno altrui. Polemicamente affermò: «le mie opere non vogliono essere esposte alla XLVI biennale di Venezia». Scelse così di misurarsi con uno dei pochi critici che avevano sempre dimostrato sensibilità e intelligenza. L'occasione era importante: il centenario della fondazione della Biennale, istituita nel 1895. De Dominicis, fra gli artisti prescelti, rispose: «Da comunicati vari e dal telegramma con il quale mi si informa di essere stato invitato ad esporre, apprendo che la Biennale di Venezia anziché essere l'occasione per mostrare in anteprima, senza interferenze, le mie opere, è diventata una mostra personale del direttore, con un titolo da lui inventato: Identità e alterità. Quindi l'esposizione del suo tema con le opere d'arte che ne diventerebbero lo svolgimento, esempi visivi utili a dimostrare le sue teorie. E con l'inserimento nella mostra anche di stilisti, scenografi, eccetera. Tutto questo non è neanche originale dato che, ad esempio, già nel '72, la mostra Documenta, a Kassel, era stata organizzata dal direttore creativo con simile stravagante metodologia. La Biennale del '95, come altre precedenti, compresa quella del '93, è il risultato della stessa mentalità, una mentalità che per molto tempo ha tediato non solo me ma anche il pubblico (...) per le manie di protagonismo di certi curatori che utilizzano le occasioni espositive per fare la loro mostra, e sentirsi così anche loro un po' artisti (...) è certo che nessuno è mai andato alla Biennale per la curiosità di conoscere le idee del direttore, bensì per la curiosità di vedere, senza indottrinamenti, inedite opere di arte contemporanea. Ed è anche molto strano che per esporre e divulgare le sue teorie, il direttore usi la struttura della Biennale quando basterebbe solo un libro per raggiungere lo stesso fine. Data la anormalità della situazione, le mie opere si rifiutano di partecipare alla mostra Identità e alterità che nel 1995 occuperà gli spazi della Biennale di Venezia».

La posizione è sorprendente e straordinaria (soprattutto per un artista che alla domanda «quale è la sua posizione nell'arte contemporanea?», aveva risposto: «seduto per dipingere formati piccoli, in piedi per dipingere formati grandi»); ed è tanto più singolare perché il critico cui si contrapponeva De Dominicis era fra i più intelligenti e meno «ideologici» di quel momento, Jean Clair, così originale e fine da aver probabilmente condiviso il «gran rifiuto» di De Dominicis. Il quale è stato l'unico artista del suo tempo a concepire l'opera d'arte come assoluto, assumendosi come sintesi di una storia memorabile di cui lui, «nano sulle spalle dei giganti», era il punto di arrivo.

Ecco il suo risalire ai Sumeri, ecco le tre stelle a otto punte come le decorazioni auree indossate dalla regina di Pu-Abi nelle tombe reali di Ur, ecco Urvasi e Gilgamesh alla ricerca dell'immortalità. Ecco l'aspirazione a un'arte senza tempo che non debba testimoniare altro che sé. Tutto questo convive col gusto del paradosso, perfino la memorabile esposizione di un ragazzo down alla Biennale di Venezia del 1972, invitato da Francesco Arcangeli e Renato Barilli a esporre nella sezione «Opere e comportamento», per testimoniare la sua «seconda soluzione d'immortalità». Provocazione: no. Così come l'Asta in equilibrio, la Mozzarella in carrozza, il grande scheletro denominato Calamita cosmica; e la sua immagine fiera, moschettiero e dandy, come appare nel ritratto fotografico di Elisabetta Catalano.

De Dominicis aveva programmato anche la sua morte misteriosa, per sfuggire alla morte uscendo da qualunque confine già definito dall'arte e dalla critica. Nessun artista può sostenere alla pari il confronto con Giotto o con Caravaggio. De Dominicis sì. E nell'opera d'arte l'artista non conta, può non esistere, può essere senza nome.

Non conosciamo l'autore dei bronzi di Riace, ma le opere parlano per lui, e combattono contro il tempo, e lo vincono, dovunque siano. De Dominicis ha scritto: «ho fatto 1500 opere e ne ho esposte 100. L'arte non ha bisogno, per esistere, di essere vista».

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