Su cosa si misura il successo di un uomo? Su quello che ha fatto. Successo è una parola eufonica, che trasmette un’emozione positiva, che indica il buon risultato dell’azione di una persona determinata. Che ha successo, dunque. Ma è una parola strana, trattandosi di un participio passato sostantivato. Successo discende da succedere. Avere successo non vuol dire altro che è successo qualcosa. Successo, appunto, è quello che è successo. Avendo letto ieri mattina le dichiarazioni di Luigi De Magistris su Berlusconi, inique e preconcette, con l’irritazione mi è venuto immediatamente da pensare, come ogni volta che sento un moralista: da che pulpito parla questo? Cosa ha fatto De Magistris?
L’unica cosa che gli è riuscita è quella che contesta a Berlusconi: fare politica. Avendo ottenuto consenso non per quello che ha fatto ma per quello che non ha fatto, o che ha fatto male. Berlusconi ha raccolto consenso attraverso l’immagine. E De Magistris ha fatto lo stesso attraverso un procedimento più inquietante e pericoloso. Per spiegarlo devo risalire a un reato che non esiste, ma che mi fu configurato, negli anni in cui polemizzavo con Di Pietro e con i magistrati di Mani pulite, da un loro amico e collega, contiguo e indipendente: Italo Ghitti, celebre gip che, in numerose occasioni (credo non sempre), ratificava le richieste di arresto dei pubblici ministeri di Milano. Al culmine dell’azione del più facinoroso di loro, Di Pietro appunto, che si configurò nell’epico scontro con Craxi indicando le due polarità del buono e del cattivo sul modello di Davide e Golia o (nella mentalità più infantile del Di Pietro) di Ginko e Diabolik, Ghitti mi confidò: «Lei, pur nella sua esuberanza, talvolta dice cose condivisibili, ma rimprovera a Di Pietro e ai suoi comportamenti in astratto non emendabili, sulla base delle inchieste o delle dichiarazioni di collaboranti (magari indotti a parlare con la tattica degli arresti). Per essere più efficace dovrebbe rimproverare a Di Pietro il reato più evidente, anche se non formalmente contemplato dal codice: quello di “corruzione di immagine”.
Chiesi chiarimenti. Mi disse (erano i giorni in cui Di Pietro annunciava il suo abbandono della magistratura, misterioso per molti, ma chiarissimo in questa luce), che gran parte delle azioni spettacolari di Di Pietro erano finalizzate a ottenere, per contrasto con la presunta o acclarata disonestà dei potenti, consenso affermando la propria purezza, la propria differenza. Io mostro che Craxi è un ladro, e prendo il suo posto. Così è andata. E così sempre di più appare affermata la posizione politica di Di Pietro rispetto al Partito democratico, nelle stesse forme del Psi di Craxi rispetto alla Dc e anche (nella logica dei due forni, fortemente limitata oggi dal bipolarismo) al Pci. La diagnosi, e ancor più, la previsione di Ghitti, appaiono oggi impeccabili. Ma se l’accusa di ipotetico reato di «corruzione di immagine», e cioè di inchiesta fatta per mettere in cattiva luce l’antagonista e occuparne lo spazio politico, vale per Di Pietro, massimamente vale per le inchieste e la carriera di magistrato di Luigi De Magistris.
Non solo i gravi rilievi contestati dal Csm (e puntualmente confutati da De Magistris), ma l’analisi di tutte le indagini e di tutta l’attività inquirente (con grandi teorie di complotti, P2, massoneria et ultra) porta alla conclusione che nessuno dei perseguiti (per non dire perseguitati) da De Magistris è stato condannato. Archiviazioni, assoluzioni, non luogo a procedere: un’impressionante quantità di fallimenti dopo un grande rumore e spettacolari coinvolgimenti sostenuti dalla grancassa di una televisione asservita al mito dell’eroe solitario e ostacolato da poteri occulti. In realtà presunzioni, insensatezze, sparate accompagnate da un vittimismo televisivo e dal fuoco amico dei Travaglio e dei Santoro. Gli spari hanno procurato feriti, fortunatamente non morti (come è capitato con le inchieste di qualche altro magistrato), ma sono stati i clienti di De Magistris, Prodi, Mastella, Loiero, Cossiga, Sanza, Luongo, Bubbico, De Filippo sul versante prevalente della politica; mentre il collega Vanesio di De Magistris, Henry John Woodcock, si occupava del mondo dello spettacolo, indagando e arrestando illustri personaggi come Vittorio Emanuele di Savoia, Fabrizio Corona, Lele Mora, Flavia Vento, Francesco Totti, Elisabetta Gregoraci, Cristiano Malgioglio.
Insomma, star della politica e dello spettacolo, trasformando Catanzaro e Potenza in capitali dell’azione giudiziaria. Altro che Palermo e Milano. Potenza della noia. Desiderio di successo. Fallimento assoluto delle indagini. Il compito di un magistrato dovrebbe essere, nel desiderio dei cittadini onesti, l’individuazione dei colpevoli. L’obiettivo di De Magistris sembra essere stato quello di creare dei casi, di inventare dei colpevoli importanti e di fare la vittima. Ottenendo l’applauso dei cittadini che odiano i potenti, e godono nel vedere abbattuti i palazzi.
Sarebbe interessante di fronte alla mancanza di responsabilità diretta del magistrato per le sue indagini sbagliate, sentire l’opinione dei parenti delle vittime, per esempio della
moglie del senatore Bubbico, che vorrebbe ottenere risarcimento dopo l’infondato sputtanamento. Ma De Magistris non paga. Quello che non può più fare con le inchieste fa con le parole. È un fallito. Ma un fallito di successo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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