La «Decadancing» di Ivano Fossati, il fotografo di Genova

(...) fra decadenza, parola soavemente tragica, e dancing, termine che evoca i balli estivi sul lungomare anni Sessanta. Insomma, qualcosa dove non ci sono il bianco o il nero manichei, ma tutte le straordinarie sfumature possibili di colori.
In questo quadro, è arrivato ieri in radio e «nei negozi digitali» (sic, anno dopo anno, ci hanno scippato anche del piacere dei negozietti di musica con il vinile e le cassette) il primo singolo, che si intitola La decadenza e che è stato registrato fra Francia ed Inghilterra, come tutto l’album, che esce a tre anni di distanza da Musica Moderna.
Il calore, quasi totalizzante, della voce di Fossati è straordinario. Quello di sempre. L’impronta musicale, però, è quasi a sorpresa, praticamente un ritorno al Fossati delle origini, quello che giocava con gli amici nei lunghi pomeriggi di piazza Galileo Ferraris a Marassi e che, una volta cresciuto, andava alla domenica pomeriggio con Emanuele Luzzati, Tonino Conte e gli amici del teatro della Tosse a suonare per «i matti» del «manicomio» di Quarto. Scoprendo che il concetto di «normalità» era niente più che un’ipotesi.
Quindi, La decadenza. Che è un rhythm & blues di carta vetrata dedicato alla fuga dei giovani verso altri Paesi, in cerca di opportunità migliori rispetto a quelle che offre l’Italia. E, come si capisce già dal titolo, Ivano gioca fra la durezza del tema e l’ironia sottile che accompagna testi e musica, invitando a guardare all’Europa come una possibile soluzione per il futuro.
Un concetto teorizzato con parole che vanno molto al di là della politica e dei facili luoghi comuni: «In questo clima da tardo impero - spiega Ivano - se la lingua che parliamo è in decadenza, se politica e morale sono già decadute, il lavoro manca e la cultura - la musica in particolare - ricopia se stessa fino allo sfinimento, i ragazzi guardano oltre le frontiere con speranza, e io non farei niente per trattenerli».
Ecco, a mio parere si può discutere di quest’ultima parte. Se, davvero, sia il caso di non lottare per trattenere i propri ragazzi, anziché combattere con le unghie e con i denti per offrire loro le condizioni per rimanere.
Ma, comunque la si pensi, Fossati, per l’ennesima volta, fotografa l’Italia. E, in particolare, fotografa Genova, che è quasi l’immagine elevata a potenza dei problemi dei giovani costretti ad emigrare per poter realizzarsi.
Fra l’altro, Ivano è uno che ha le carte in regola per farlo perché, in passato, ha dimostrato una notevole generosità nel mettere la sua voce torrida al servizio dei colleghi. E non mi riferisco solo all’ultima partecipazione al disco di Anna Oxa, in grado di nobilitare l’intero album, o agli scambi di voci e testi con Adriano Celentano, con De Andrè e De Gregori di cui dicevamo prima o con Teresa De Sio, che è la voce della Volpe in una delle più belle canzoni fossatiane, ma anche all’ingresso improvviso in canzoni di artisti meno conosciuti: dai Quintorigo ai Solis Sing Quartet, passando per Pacifico con cui ha duettato in A poche ore. La canzone procede lenta, diesel, finché entra Ivano, che scardina ogni convenzione musicale e linguistica.


E così, fra sapori di erbe provenzali, dove ha una casa; aria del porto di Marsiglia, forse ancor più mediterraneo di quanto lo siano le vie di Sottoripa e di Caricamento; e profumi della casa di Leivi, dove il Tigullio più rude domina sul mare, circondato dal verde selvaggio, quasi in un riassunto della Liguria in un paese, Fossati continua a scattare le sue fotografie di parole.
E, anche stavolta, lo scatto è a fuoco.

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