Gli dei di Ife che stregarono Picasso

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La scoperta dell’arte africana e in genere dell’arte dei cosiddetti primitivi risale all’inizio del XX secolo, quando, a Parigi, gli artisti moderni, cubisti e fauves furono affascinati dall’arte negra, importata dalle colonie francesi. I feticci del Congo, le statuette del Sudan, sia Bambara che Senoufo, le maschere Dan, costituirono un forte motivo di ispirazione per i pittori cubisti; e un dipinto come Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso resta una pietra miliare di questo connubio fra arte moderna e arte «primitiva». È noto lo scambio di battute fra Picasso e Braque di fronte ad una statuetta africana: «È bella come la Venere di Milo!», esclamò Braque. «È più bella», precisò Picasso.
In realtà Parigi era divenuta un centro di studio dell’arte africana e moltissime furono le opere importate e collezionate. Ma fra queste ve ne furono alcune che non rientravano esattamente nei canoni comuni del primitivismo, cubisteggiante e informale, ma che possedevano caratteristiche che, nel contesto africano, costituivano un capitolo a sé: erano queste le opere, Ife e Benin, che provenivano dalla Nigeria. E che, a differenza della gran parte dei feticci scolpiti in legno, erano prevalentemente in bronzo, in pietra o terracotta e possedevano requisiti stilistici che potremmo definire, tout-court, classici. Con una perfezione formale e un rigore delle proporzioni accentuato dalla geometria dei tatuaggi incisi sulla superficie dei volti.
Insomma queste statue costituiscono una storia a sé nell’arte dell’umanità. E, diversamente dai feticci scolpiti in materiali deperibili (il legno aggredito dalle termiti e dall’umidità), erano più durature. Tant’è che si poté calcolare che le più antiche sculture risalivano alla nostra epoca rinascimentale e taluni manufatti alle civiltà anteriori alla nostra età classica, addirittura di ascendenza egizia. Sta di fatto che l’attrazione suscitata da queste opere in Occidente, e quindi nella cultura moderna, non era più di natura etnologica e non riguardava più la cosiddetta arte dei primitivi, ma l’arte, la grande Arte. Anche perché queste opere erano eseguite con una perfezione tecnica notevolissima non ignara degli accorgimenti, come la fusione a cera persa, ben noti nella Firenze rinascimentale. Bisogna pur dire che le altre opere della Nigeria di carattere più primitivo possedevano anch’esse un gran rigore formale e una loro perfezione se, pur astratteggiante, tale da suscitare l’interesse degli amatori d’arte. E fra questi è ben nota e documentata da centinaia di immagini, la passione che suscitarono nel celebre fotografo amburghese e grande esteta Herbert List, che aveva già dimostrato attenzione verso l’arte classica con il suo prestigioso libro sulla Grecia Licht uber Hellas.
List si dedicò allo studio delle sculture nigeriane e dal corpus delle sue fotografie si può ricavare un esame articolato dei diversi generi, Ife e Benin. Le opere classiche ritrovate in Nigeria in vere e proprie campagne di scavo archeologiche hanno conferito quella effettiva rarità che le distingue anche nel fiorente mercato antiquario di Parigi e di New York, là dove sono considerate del tutto introvabili, degne dei grandi musei.
Per la seconda volta, una grande mostra della scultura nigeriana viene ospitata a Firenze, nella prestigiosa sede di Palazzo Strozzi, dopo quella del 1958 («Quando Dio abitava a Ife. Capolavori dell’antica Nigeria», Palazzo Strozzi, fino al 3 luglio 2005, catalogo Artificioskira).

In realtà l’interesse per l’arte nigeriana a Firenze è motivato dagli studi effettuati già negli anni Cinquanta dal grande storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, il quale fondò un centro di studi africani che però nella Firenze dalle memorie medicee viene considerato come un corpo estraneo.

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