Milano Un metro e mezzo di distanza separa Alberto Stasi dai genitori di Chiara Poggi quando nell’aula sbucano i giudici e i giurati. Sta per essere letta la sentenza che per la seconda volta assolverà Alberto dall’accusa di avere ucciso Chiara. «È giusto così», dirà lui alla fine. Ma in quei pochi istanti di attesa, Alberto e i Poggi sono lì, quasi attaccati, e se allungassero la mano potrebbero toccarsi. Ed è impossibile non ricordare un’altra immagine quasi identica, tutti e loro tre vicini su altre panche, quelle del Duomo di Garlasco, il giorno del funerale, quando ancora condividevano il dolore, e questa storia terribile non li aveva allontanati e contrapposti per sempre.
Ma sono pochi istanti. Il giudice Anna Conforti legge la sentenza. Il giudizio di primo grado è confermato dalla Corte d’Appello, Alberto viene assolto. Per la giustizia nulla dimostra che sia stato lui a uccidere Chiara. A quel punto è come se una forza centrifuga allontanasse all’istante Alberto e i Poggi. I genitori della ragazza uccisa scivolano vitrei e silenti verso il lato sinistro dell’aula, papà Poggi fissa il niente davanti a sé, sua moglie fa lo stesso: «In quel momento non ho visto niente e guardato niente». Invece Alberto si sposta verso il lato destro e lì diventa subito il centro di un crocchio festante di avvocati e praticanti, ha gli occhi lucidi dalla gioia e dalla tensione, e persino al vecchio Piero Giarda, suo difensore, un veterano che ha sulla toga i segni di mille processi, vengono le lacrime agli occhi.
Tutto è finito, o quasi. Quattro anni, tre mesi e ventitrè giorni dopo la mattina di agosto in cui Chiara Poggi aprì la porta al suo assassino, l’unica pista battuta dalle indagini si affossa definitivamente. L’assoluzione pronunciata dal giudice preliminare di Vigevano viene confermata, e stavolta da due giudici di mestiere e sei giudici popolari, cittadini chiamati a giudicare questo giovane uomo istintivamente antipatico ai media e all’opinione pubblica, per i suoi occhi troppo chiari, il suo dolore troppo contenuto.
Era facile che un clichè di assassino cucito addosso a Stasi sui giornali e nelle tivù influenzasse la giuria più del quadro concreto delle prove. Così non è stato. Tutti gli elementi nuovi che la Procura generale ha offerto in aula per portare contro Alberto qualcosa di più della diffidenza epidermica - ed erano, va detto, elementi non peregrini, perché di punti oscuri nel racconto del ragazzo ce n’erano e ce ne sono ancora - non sono stati sufficienti affinché i giudici si prendessero la responsabilità di condannarlo a trent’anni di carcere.
Il filone Stasi si estingue, o quasi: solo il controllo di legittimità della Cassazione, cui è verosimile che la Procura farà ricorso, separa Alberto dalla fine delle sue peripezie giudiziarie. Ma chi ha ucciso Chiara, allora? «Non sta a noi dirlo - risponde il professor Giarda - e non stava a questa Corte. Qui si doveva giudicare Alberto Stasi, e tutto ciò che abbiamo portato in aula ha dimostrato la sua estraneità». La ricerca di un colpevole ad ogni costo, dicono i difensori, ha portato a «un’indagine unidirezionale»: si è preso di mira un innocente, e il vero colpevole è stato lasciato indisturbato e impunito.
Cercarlo adesso, il vero assassino di Chiara, sarebbe ancora possibile se lo si volesse. Ma alla Procura di Vigevano un fascicolo d’inchiesta sull’omicidio di Garlasco non è finora stato riaperto, perché avrebbe significato smentire la tesi cui i pm si sono attaccati senza incertezze, e che esce sconfitta di nuovo dalla sentenza di ieri. La madre di Alberto dice ai cronisti: «Non mi arrenderò, ho ancora fiducia nella giustizia».
Le ragioni del cuore, più di quelle degli indizi e degli alibi, le dicono che a strapparle quella figlia seria e dolce è stato il ragazzo che avevano accolto in casa, coccolato, considerato uno di loro. Le ragioni del cuore a volte non sbagliano. Ma in Corte d’assise non hanno la parola.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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