nostro inviato a Ugento (Lecce)
L’ombra tetra della pedofilia si allunga sull’omicidio di Giuseppe Basile, il consigliere provinciale leccese dell’Italia dei Valori scannato a coltellate, sull’uscio di casa, una calda notte d’estate del giugno 2008. A forza di dare la caccia agli assassini la procura locale è finita a investigare con grandissima cautela su presunti abusi sessuali commessi all’oratorio del comune di Ugento, dove Peppino Basile viveva e dov’è parroco don Stefano Rocca, amico dell’esponente Idv. Il quale, all’indomani dell’omicidio, s’era fatto rumorosamente portatore di istanze di verità insieme agli esponenti dell’Idv sull’omertà diffusa e sulla pista «politica» del delitto che hanno scatenato il finimondo. Sia il prete che i seguaci di Tonino poi hanno abbandonato la scena non appena le indagini si sono chiuse con l’arresto dei vicini di casa riaprendosi con le testimonianze dei ragazzi presumibilmente molestati.
Per capire a che livello di squallore siamo arrivati occorre rimettere le lancette dell’orologio all’1.35 del 14 giugno di due anni fa. Il consigliere dell’Idv è al volante di una Panda nella periferia di Ugento, imbocca via Nizza, percorre 200 metri e parcheggia sotto l’abitazione. Qui, nel buio pesto illuminato da un unico lampione, trova ad attenderlo la morte. Qualcuno gli si avventa contro e gli squarcia il torace con 22 coltellate. L’esecuzione è scomposta, rabbiosa, niente a che vedere con le modalità della criminalità organizzata che peraltro in quest’angolo di Salento attecchisce poco. Nonostante ciò, a cadavere ancora caldo, con Antonio Di Pietro sceso per i funerali celebrati da don Stefano, l’Italia dei Valori comincia a dire che Peppino è stato ammazzato per le sue coraggiose battaglie contro il malaffare locale rappresentato dai politici di centrodestra, come il povero sindaco Eugenio Ozza, che non avrebbe difeso abbastanza don Stefano assurto a prete-investigatore perché destinatario di lettere anonime e confidenze sugli assassini ricevute nel confessionale (sic!). Fatto sta che con l’inesorabile trascorrere del tempo, con le indagini apparentemente in stallo, l’Idv sui giornali e il religioso in chiesa, alzano i toni dello scontro. Manifestazioni, fiaccolate, volantini, pièce teatrali, sit-in di comitati spontanei, premi alla memoria. Addirittura un’interpellanza parlamentare per chiedere di fare luce su chi avesse vergato con lo spray una brutta frase contro Basile, sbiadita dal tempo, su una parete del centro storico. Un’altra per sapere se fosse vero che il sottosegretario Mantovano (che è di Lecce) avesse fatto pressioni per ammansire gli inquirenti sulla pista che portava a un giovane di An interrogato per sei ore in quella questura «dove presta servizio – raccontano oggi gli arrabbiatissimi militanti del Pdl della zona – Gianfranco Coppola, eletto proprio qui a Ugento con l’Idv». Il parlamentare Pierfelice Zazzera, coordinatore regionale del partito del gabbiano, sollecitò addirittura un’ispezione al ministro Alfano poiché più si andava avanti e più gli inquirenti brancolavano nel buio. A un anno dal delitto, al Corriere del Mezzogiorno, lo stesso Di Pietro senza alcuna cautela diceva che era «un delitto che parla» e che Basile «è stato certamente ucciso per quello che stava facendo in politica». Che poi è quanto ritroviamo trascritto da Tonino nella prefazione di un libro, «Il Sistema», che sin dalla copertina indica ai lettori la strada di verità che si vuole percorrere: «L’intreccio di interessi economici-politici all’ombra dell’omicidio di Peppino Basile». E don Stefano? In parallelo conduceva incessantemente una battaglia. Appena poteva, attaccava i fedeli omertosi. Un giorno rivelò che i concittadini lo pedinavano dentro e fuori l’oratorio e che il suo era un «impegno politico», contro il “Sistema”, e che la “mafia” che ti impedisce di parlare stava dietro all’omicidio dell’amico. Battibeccava sempre più spesso col sindaco che invece di porger l’altra guancia gli rispondeva per le rime «che a Ugento la mafia non c’è» e che se proprio voleva fare politica che si spogliasse dell’abito del Signore e si confrontasse con lui in consiglio comunale. La buonanima del vescovo, monsignor Vito De Grisantis, ha provato a far da paciere fra il Peppone ex missino e il don Camillo del Salento. I risultati sono stati penosi. Fino a quando la tranquilla Ugento, divenuta Corleone, la mattina del 20 novembre 2009 si sveglia con i tg locali impazziti: «Per l’omicidio di Giuseppe Basile arrestati due vicini di casa. Il delitto sarebbe maturato per una lite aggravata da vecchi rancori». Proprio così. In cella finiscono i dirimpettai Vittorio Colitti, 66 anni, e il nipote Vittorio, all’epoca dei fatti minorenne. Dai verbali allegati al fascicolo si scopre che c’è una supertestimone. Ha 7 anni ed ha assistito in diretta all’omicidio perché alle prime grida d’aiuto di Peppino s’è affacciata alla finestra che dà su via Nizza. Se non ha parlato prima è perché la nonna s’era raccomandata di non dire niente a nessuno. Ma una volta messa dolcemente alle strette da una psicoterapeuta e dalla pm dei minori Simona Filoni, alla fine se la canta. E seppur con qualche imprecisione nei ricordi, la ragazzina alla fine indica senza indugi che quello che in strada era «di fronte a Peppino», era «il nonno di Luca» che è «vecchio, grosso, con la pancia» e dava «le botte» con un coltello. Mentre l’altro, «teneva soltanto fermo il signore, di lato, per la vita (...). Quando mi sono affacciata c’era il fratello di Luca (...)». La posizione dei due indagati si aggrava ulteriormente quando si viene a sapere che don Stefano, preso a verbale il 16 marzo 2009, aveva rimarcato come la signora Antonia, moglie del presunto assassino, «che fino al giorno dell’omicidio frequentava assiduamente la parrocchia» dopo il delitto aveva avuto un atteggiamento ostile nei suoi confronti. «Quando ci parlai – racconta don Stefano - mi accolse freddamente chiedendomi se avevo ancora intenzione di interessarmi della morte del loro vicino.
Aggiungo che anche il nipote nel corso degli ultimi mesi non frequentava più l’oratorio». Frasi ambigue, secondo la comunità di Ugento che reputa innocenti i due Coliti tanto da cooptare per le indagini difensive l’ex colonnello del Ris, Luciano Garofano. Frasi che per molti somigliano a una imbeccata ai carabinieri e che si aggiungono a quelle di Rappon Sarika, un’amica di Basile, che a verbale ha riferito che Peppino le disse dei rancori coi vicini «che gli rompevano i coglioni», che «lo spiavano quando rientrava», con i quali aveva avuto diverbi, e che nutrivano del risentimento, forse, perché «in giro si vociferava che lui aveva avuto una relazione sentimentale con la vicina di casa (...) e che il ragazzo vicino di casa lo aveva infastidito più volte». Aggiunse che se gli fosse successo qualcosa «sarei dovuta andare da don Stefano a cui lui aveva riferito ogni cosa». Un dato è certo: dall’arresto dei vicini di casa, il prete che sapeva dei vicini e che la menava sull’omertà del paese, smise di fare baccano. E con lui i pasdaran locali dell’Idv. Don Stefano ricominciò a parlare quando si seppe che la procura, sulla scia dell’inchiesta dell’omicidio Basile, indagava su presunte molestie a minori nell’oratorio da lui diretto e che Peppino frequentava in quanto sostenitore della squadra di calcetto. Squadra dove giocava sia il minorenne arrestato, sia un testimone dei presunti abusi. Così il prete finisce indagato per molestie, mentre per l’inchiesta-madre sulle 22 coltellate, oltre ai presunti assassini, sono indagati i genitori del giovane arrestato (che è già stato rinviato a giudizio, ndr) e l’amico che inizialmente gli fornì l’alibi. Nel nuovo fascicolo sono confluite numerose testimonianze di minori, oltre a una catechista, che avrebbero confermato le molestie e che avrebbero anche fatto cenno al misterioso suicidio di un ragazzino. Versioni delicate, ovviamente tutte da verificare. Quale sia la correlazione fra l’inchiesta sul delitto e quella sugli abusi sessuali non si sa. Un raccordo gli inquirenti lo ravvisano certamente nell’omertà di un piccolo centro dove anche solo l’idea di un “giro” di pedofili è respinta con sdegno e paura. Fatto sta che ai ragazzini interrogati si continuano a porre domande sul più giovane dei presunti assassini che, per inciso, si continua a professare innocente. Nel frattempo continuano ad arrivare in procura lettere anonime che accusano il religioso e che suggeriscono ai magistrati dove, e a chi, chiedere informazioni sulle presunte attenzioni riservate a ragazzini di Ugento. Ad avvelenare il clima concorrono in coda due fattori: l’improvviso trasferimento a Caltanissetta della pm che ha risolto il caso e che taluni, forse, avrebbero preferito tenere aperto per inseguire i mandanti-fantasma dell’affarismo politico. E le parole di fuoco di Cataldo Motta, procuratore capo di Lecce, che su don Stefano ha detto chiaro e tondo: «Ha fatto credere di sapere cose che in realtà non sapeva». Perché l’abbia fatto non si capisce. «Credo che tutta la sua condotta sia stata finalizzata a precostituirsi un alibi (...) – attacca un supertestimone a verbale -. Riguardo alla condotta tenuta prima e dopo il delitto ritengo che lui abbia agito così perché (omissis) avrebbe poi potuto gridare ai quattro venti che era stato mandato via da Ugento per le sue campagne a favore della giustizia e della verità nel delitto Basile». E ancora. Un altro ragazzo s’è ricordato di come «nel 2003 non correva buon sangue fra Basile e don Stefano. Il sacerdote non perdeva occasione di punzecchiarlo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.