Diavoli e angeli sulla Via della Seta

Aurel Stein, Sven Hedin, Albert Le Coq, Paul Pelliot e Langdon Warner. Uomini normali in tutto tranne che nella sterminata cultura e nell’incrollabile forza di volontà. All’inizio del Novecento batterono palmo a palmo tutta l’Asia alla ricerca di antiche civiltà. Peter Hopkirk ne racconta le storie inimitabili

A vederli, i «diavoli stranieri» non erano poi granché. Aurel Stein arrivava al metro e sessanta o poco più, Sven Hedin era miope come una talpa, Albert Le Coq aveva l’aspetto di un vinaio, e del resto commerciante di vini era suo padre... Solo Paul Pelliot e Langdon Warner avevano quello che con qualche forzatura si poteva definire le phisique du rôle dell’esploratore, nel primo caso coniugato sul versante dandy del gentiluomo ozioso, nel secondo su quello più brutale dell’irsuto cercatore d’oro.
Ciò che li rendeva tutti «diabolici» era altro: la sterminata cultura da un lato, molte lingue parlate, varie specializzazioni acquisite, conoscenze artistiche, cartografiche, geografiche, botaniche, la forza di volontà e l’incredibile resistenza psicofisica dall’altro: sopportazione del dolore, del freddo, del caldo, migliaia di chilometri a piedi, in sella a un cavallo, sul dorso di un cammello, più di una volta lì lì per morire congelati, di sete, di infezioni, vittime di una razzia, di pura e semplice xenofobia... E poi l’orgoglio di poter essere i primi, di poter essere i soli, di poter essere i più grandi. All’inizio del Novecento, e per una manciata di anni, fecero parte di quella che un tempo era stata la più grande arteria commerciale del mondo, la Via della Seta, e poi per secoli uno dei luoghi meno attraversati del pianeta, il luogo deputato di una caccia alle antiche civiltà che lì si erano succedute, in seguito scomparse nel nulla, oppure sepolte sotto la sabbia in attesa che qualcuno avesse il coraggio necessario per andare a ritrovarle.
Il regno buddista di Gandara, il nestorianesimo e il manicheismo di Turfan, la dinastia cinese T’ang, l’Islam, lo straordinario intrecciarsi, insomma, di imperi e religioni, eserciti e commerci, in un’area che le condizioni climatiche avevano di fatto trasformato in una sorta di continente a sé, per molti versi inaccessibile. Lì c’era il deserto del Takla Makan, il cui nome in turki significa, semplicemente, «se entri, non ne esci più» e in cinese «sabbie semoventi», per le sue dune gialle spazzate dal vento. Lì c’erano il deserto del Lop e il deserto del Gobi, e tutt’intorno le catene montuose più alte del mondo: il Pamir, il Karakorum, la catena del Tien Shan. Nel corso del tempo quella regione si era chiamata Tartaria cinese, Turkestan orientale, Serindia, Sinkiang, Asia centrale cinese...
Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi, pagg. 313, euro 23) di Peter Hopkirk è il resoconto accurato di questa caccia, che spesso si tradusse in depredazione bella e buona, degli uomini che la condussero, svedesi al servizio dell’Inghilterra, ungheresi naturalizzati britannici, tedeschi, francesi, russi, americani, cinesi, giapponesi, a volte semplici funzionari pubblici come status, ma anche insigni studiosi, valenti esploratori, letterati di genio, avventurieri, falsari. L’elemento più paradossale del libro è nel capitolo che lo chiude, quando l’autore sottolinea il divario fra «l’incredibile ricchezza di materiali arrivati in Occidente» grazie a quella caccia e la scarsa o nulla conoscenza che se ne ha. «I tesori e i manoscritti della Serindia (per usare il termine coniato da Stein) sono oggi sparsi in una dozzina di Paesi e in un totale di oltre una trentina fra musei e istituzioni. E tuttavia, quanta gente ha mai sentito parlare dell’arte serindiana, di Tun-huang o addirittura di sir Aurel Stein? Quanti di noi hanno visto i grandi affreschi buddhisti di Miran o di Kyrie, le delicate sete policrome o i magnifici stendardi, rotoli e sculture della dinastia T’ang usciti dai suoi monasteri, templi, santuari?».
Due anni fa, la mostra sui «Tesori della Via della Seta» al British Museum ha riportato alla luce quello che per più di mezzo secolo era rimasto segregato nei sotterranei del museo stesso, in pratica l’intero corpus delle scoperte fatte da Stein. Se motivi diplomatici potevano essere portati a giustificazione di questo sonno semisecolare - la Cina, non senza ragione, riteneva quelle scoperte una vera e propria razzia, e ne reclamava la restituzione - la spiegazione più convincente quanto alla scarsa conoscenza in genere di quei tesori risiede nelle distruzioni belliche legate al secondo conflitto mondiale, il 40 per cento in pratica di ciò che gli archeologi tedeschi avevano trovato e portato via, nella dispersione di collezioni pregresse, nella difficile opera di traduzione di manoscritti sparsi fra più nazioni e ancora oggi in attesa di essere affrontati, nella apparente ripetitività di molti reperti e quindi nel loro minore appeal agli occhi inesperti di un ipotetico visitatore.
Nell’elenco di incredibili tipi umani presenti in Diavoli stranieri sulla Via della Seta, due meritano un discorso a parte. Il primo è Islam Akhun, il cercatore di tesori semianalfabeta di Khotan, che fra il 1895 e il 1898 riempì le collezioni pubbliche delle grandi capitali europee, Londra in testa, di finti manoscritti buddisti a lungo presi per veri e oggetto di studi e relazioni... Alla British Library ce ne sono novanta in catalogo, sotto il nome di «Falsi centroasiatici», e sono un campionario di genialità: pagine consunte, carta invecchiata, testi sbiaditi, ricchezza grafica...
Il secondo è Paul Pelliot, il maggior studioso francese di arte cinese. Sulla Via della Seta la Francia arrivò buon’ultima, distratta com’era dalla civiltà Khmer in Indocina, ma grazie a lui si ritagliò un posto di prestigio. Pelliot aveva 27 anni, parlava 13 lingue, aveva avuto la Legion d’onore nemmeno ventenne, durante la rivolta dei Boxer, era esperto, come dirà egli stesso, «nell’arte di farsi nemici». A differenza di Stein, che lo precederà nella scoperta dei manoscritti di Tun-huang, conosceva il cinese, e così i documenti che da quel sito riportò in patria saranno più importanti di quelli dell’inglese. Nella galleria del Museo Guimet che porta il suo nome c’è una foto, scattata da Charles Nouette, il fotografo della spedizione, che lo ritrae nella «stanza segreta» dei 20mila manoscritti, accovacciato di fronte a quella che è una vera e propria montagna di carte. «Ho affrontato quasi mille rotoli al giorno» scrisse al presidente del comitato che aveva tenuto a battesimo la spedizione, «come un filologo su una macchina da corsa»...
Al ritorno in patria Pelliot si ritrovò al centro di una polemica astiosa. Era stato via tre anni, le sue lettere da Tun-huang non avevano un taglio accademico, i manoscritti da lui depositati alla Biblioteca nazionale, dipartimento di Orientalistica, non erano a disposizione di altri studiosi fuori che lui, il suo essere arrivato dopo Stein, tutto questo insieme di cose stava a significare che quanto aveva riportato in patria era fatto di scarti e/o di falsi... Soltanto la pubblicazione, un anno dopo, del libro di Stein Ruin of Desert Cathai, pieno di elogi per il francese, spazzò via tutte le accuse. Il problema di Pelliot era l’essere troppo intelligente. Da quel sito sperduto aveva mandato anche brevi relazioni, così dettagliate e precise che, senza una biblioteca sotto mano, risultava un’impresa impossibile. Ergo, non avendo potuto copiare, si doveva essere inventato tutto... Eppure, la spiegazione più semplice era quella di un suo collega: «Quando Pelliot ha letto un libro, tutto il contenuto resta qui» dirà puntandosi un dito sulla fronte.


Anche le autorità cinesi erano rimaste colpite da uno che parlava la loro lingua come se fosse la propria e conosceva la loro storia meglio di loro. Un vero «diavolo straniero», capitato come d’incanto sulla Via della Seta.

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