Cultura e Spettacoli

Dico: non l’oro è il nervo della guerra, ma i buoni soldati

Sarebbe troppo comodo confinare Massimo Fini nello spazio riservato agli irregolari. In realtà, oltre a essere un grande giornalista, Fini è anche un ottimo saggista, e non si lascia rinchiudere in alcuna riserva, neppure quella dei «venerati ribelli». Non gli mancano infatti idee forti e strutturate, trasfuse in libri di grande valore e in articoli come quelli che ora vanno a comporre La guerra democratica (Chiarelettere, pagg. 290, euro 14,90). L’antologia raccoglie gli scritti sulle guerre condotte dagli Stati occidentali, sotto l’egida statunitense, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi. Sono otto in vent’anni, dal conflitto del Golfo (1991) alla Libia (2011), passando per Somalia, Bosnia, Serbia, Afghanistan, Iraq, Etiopia. In questi conflitti molto diversi tra loro, Fini intravede un minimo comune denominatore: il Vizio oscuro dell’Occidente, titolo di un suo libro del 2002, cioè la tentazione di imporre agli altri i propri valori, ritenendoli «universali» e comunque «superiori».
Fini non gioca a fare l’antioccidentale di maniera, da Terza pagina di giornale di sinistra. Qui la vera e costante provocazione, fin dai primissimi «pezzi» antologizzati, risiede proprio nel richiamare l’Occidente al rispetto di uno dei suoi pilastri: il diritto. Tra parentesi, una materia che l’autore maneggia con piena cognizione di causa.
La «guerra democratica», secondo Fini, ha scardinato «il diritto internazionale vigente fino all’altro ieri». Il grimaldello sono stati «i diritti umani», utilizzati talvolta ipocritamente per mascherare la realtà. Ma la guerra è la guerra, anche se la chiamiamo «operazione di polizia internazionale» o di «peacekeeping» o ancora peggio «missione umanitaria». E i nemici sono nemici, anche se li definiamo «criminali» o «terroristi» (il che tra l’altro consente di non osservare lo ius belli). Secondo Fini, gli effetti deleteri degli interventi occidentali annientano quelli positivi. Innanzi tutto, tentare di rovesciare il verdetto sul campo, come accadde nel conflitto tra Iraq e Iran, produce un allungamento dello stesso e un moltiplicarsi delle vittime. Oppure conduce a una pace illusoria, come nel caso della Bosnia, dove, come è stato raccontato proprio in questi giorni dal Giornale, il furore bellico cova sotto le ceneri.
Ci sono altre conseguenze, di carattere più generale e quindi ancora più temibili: la «guerra democratica» ha abbattuto il principio della «non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano», creando pericolosi precedenti. Alla lunga, la «guerra democratica» produce uno strano effetto: il richiamo a valori etici universali, in nome dei quali violare la sovranità nazionale, porta ad abbattere anche «il principio dell’appartenenza nazionale, dell’obbligo morale di schierarsi col proprio paese (Right or wrong, my country) ponendo così le premesse per una profonda spaccatura proprio all’interno dei paesi occidentali». L’appartenenza a una nazione «è univoca», i principi universali, «a dispetto del nome, non lo sono affatto». Alcuni sono «più universali di altri» a seconda delle convinzioni personali.
Il pacifismo non c’entra. Secondo Fini fare la guerra si può e si deve; ma solo in presenza di una palese violazione del diritto internazionale, come fu, a esempio, l’invasione del Kuwait ordinata da Saddam Hussein.

Una posizione, alla fine, molto occidentale, che deve far riflettere chi, come noi, crede ancora nell’Occidente.

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