Didion, usare la vita per elaborare la morte

Tra i libri più belli dell’ultimo 2006 mettiamo L’anno del pensiero magico di Joan Didion (Il Saggiatore, pagg. 217, euro 14, traduzione di V. Mantovani). Uscito nel 2005, vinse il «National Book Award», uno dei premi americani più prestigiosi, per la nonfiction. In effetti, pur trattandosi di un’opera di narrativa, è una storia vera; e gli americani sulla distinzione tra storia vera e storia inventata sono particolarmente sensibili (noi, invece, che non distinguiamo tra essay, memoir e novel, su un libro del genere appiccichiamo l’etichetta di romanzo). Che il libro vada preso per un resoconto veritiero lo suggerisce la copertina dell’edizione originale: il nome dell’autrice è più grande del titolo e sulla quarta c’è una foto dei protagonisti - la Didion, il marito John Gregory Dunne e la figlia Quintana.
La foto fu scattata a Malibu, nel 1976, su una terrazza, davanti al mare. Joan ha i capelli scuri, è molto carina e rivolge un’occhiata compiaciuta, di lato, al marito e alla figlia, che sono in primo piano e guardano il fotografo, dando le spalle a Joan. Quello sguardo di Joan, che sta lì, al centro della composizione, ma arretrata, quasi fosse un’intrusa, com’è doloroso, a rivederlo nel 2005! Leggiamo il libro e scopriamo che John e Quintana, nella vecchia foto di Malibu, sono già irrimediabilmente lontani. Joan li sta salutando con gli occhi.
Apriamo il libro alla prima pagina. Siamo alla fine del 2003. Joan e John stanno rientrando a casa dall’ospedale dove Quintana è in coma. Joan prepara la cena e John, dopo aver chiesto da bere, stramazza sul pavimento. L’ambulanza arriva subito ma l’uomo è già morto. «La vita cambia in fretta», scrive Joan in un file del computer. È la prima frase del libro. L’anno del pensiero magico è cominciato. L’infarto costringe Joan a rivedere le sue convinzioni sulla vita, l’amore, la morte; a rifiutare l’idea della fine; a conservare le scarpe di John, perché, se torna, avrà qualcosa da mettersi ai piedi.
La scrittura del libro è sicuramente parte di quel «process of mourning» (la famosa «elaborazione del lutto») di cui Joan ci parla in ogni pagina. E nella sincerità sta gran parte del valore del libro, e la ragione del premio. Ma non troviamo sfoghi viscerali o riflessioni sul senso della vita. L’autrice, non dimentichiamolo, è americana - ed è una brava giornalista. Dove un altro scrittore, un europeo, avrebbe fatto ricorso a immagini e metafore, Didion resta scrupolosamente attaccata alla realtà dei fatti, alle cose, ai farmaci, all’autopsia. Il lutto si è messo a parlare la lingua dell’ospedale, non della letteratura.
Il merito principale di questo libro non è tanto nella profondità di ciò che dice - di profondo ha poco - o nella costruzione - che a tratti traballa -, ma nella capacità di farci sentire, proprio come quando tocca a qualcuno che amiamo noi, la sconvolgente mostruosità della morte. John è morto a settant’anni suonati, della morte più pietosa, al culmine di una vita ricca e piena di soddisfazioni. Eppure sentiamo che non è giusto. Non doveva finire così. Il racconto si conclude con la fine del lutto, di cui la piccola foto della Didion di oggi, nel risvolto di copertina, vecchia e stupefatta, è una testimonianza visiva di notevole effetto. Ma si è veramente concluso? Della malattia di Quintana non abbiamo più sentito parlare. Si è rimessa? E dov’è? Ma anche Quintana, a un certo punto, è morta.

Joan era ancora in tempo per raccontarcelo. Perché non l’ha fatto? Il libro - ha dichiarato a un intervistatore - era finito così. E con questa ulteriore distinzione tra libro e vita ci ha indicato un’altra terribile, indicibile verità.

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