Dieci giorni di violenze: è la fine della città modello

L’ultimo caso: giovane rapita e aggredita mentre buttava i rifiuti sotto casa

Dieci giorni di violenze:  è la fine della città modello

nostro inviato a Bologna
Era uscita verso mezzanotte per gettare la spazzatura. Ma nella discarica del terrore c’è finita lei, una studentessa di 24 anni che è stata avvicinata sotto casa da due uomini, minacciata con un coltello, scaraventata su un’auto, violentata sul sedile posteriore, abbandonata per la strada e soccorsa da un passante che l’ha convinta ad andare in questura. Una scena da Bronx. È successo a Bologna, la capitale italiana degli stupri: soltanto negli ultimi dieci giorni i mattinali delle forze dell’ordine ne hanno registrati quattro. Una ventiseienne cubana scesa dall’autobus dopo il lavoro, una ragazza uscita da un centro sociale, una giovane romena brutalizzata dal papà che già un anno prima le aveva usato violenza.
E poi lei, una ragazza napoletana, studentessa fuori sede che vive poco fuori dal centro, ora ricoverata sotto shock all’ospedale Maggiore. I due aggressori (stranieri, forse magrebini) erano su un’auto «grande e scura» parcheggiata in via Zanardi, hanno spinto la giovane a bordo, uno l’ha violentata mentre l’altro guidava senza fermarsi in un lungo giro della morte nei labirinti della periferia. Dopo la violenza ha vagato per ore senza meta. Nessuno pare abbia visto nulla, nessuno ha dato l’allarme perché la coinquilina, studentessa anch’essa, era fuori. Un racconto ancora confuso. Buio sui particolari, e anche su questa città sbandata.
Bologna è la patria di Romano Prodi, Luca di Montezemolo, Sergio Cofferati (di adozione); è la sede della più antica università dell’Occidente, quasi mille anni; è il simbolo del mangiare bene e del buon vivere. Nel dedalo di stradine antiche perfettamente conservate (è il più grande centro medievale d’Europa dopo quello di Venezia), Lucio Dalla cantava che «non si perde neanche un bambino». È il fiore all’occhiello del defunto partito comunista e oggi del centrosinistra, che l’ha governata dal dopoguerra ininterrottamente (a parte la parentesi guazzalochiana) e ne ha fatto il fulcro del «modello emiliano» di governo. Un mese fa come teatro della sua manifestazione Beppe Grillo ha scelto piazza Maggiore, presa come simbolo di riscossa contro l’Italia del malgoverno.
Un mito. Che in realtà è crollato da tempo, seppellito sotto le macerie della violenza quotidiana. Sembrano passati secoli (mentre non sono nemmeno 40 anni) da quando Pier Paolo Pasolini si domandava: «Cos’ha Bologna, che è così bella? L’inverno col sole e la neve, l’aria barbaricamente azzurra sul cotto. Dopo Venezia, Bologna è la più bella città d’Italia». Appena tre anni fa Edmondo Berselli, modenese trapiantato sotto le Due Torri a dirigere la rivista del Mulino, cedeva al lusso di corredare il suo libro Quel gran pezzo dell’Emilia con questo roboante sottotitolo: «Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe». «Vecchia signora coi fianchi un po’ molli, arrogante e papale, rossa e fetale, grassa e inumana», cantava Francesco Guccini, il menestrello di una vita fatta di libri e bicchierate, esami fuori corso e osterie fuori porta, paragonate ai bistrò di Parigi dove passare le serate a tirar tardi. Nostalgie lontane.
Che fine ha fatto questa Bologna? Lo stereotipo della città accogliente, sicura, dotta, aperta, intelligente (e tutto questo grazie al fatto di essere rossa) è drammaticamente tramontato. La dolce vita di Bologna è un ricordo. Le auto in centro sono vietate, le osterie chiudono al tramonto, l’alcol è un tabù, la penombra dei portici dà asilo ad ambulanti abusivi e sbandati, la gente vive barricata in casa, il sindaco è uno sceriffo di sinistra che sventola la bandiera della legalità e si ritrova il record di stupri.

Quattro anni fa il candidato Sergio Cofferati si prese le sue quando la definì «una città avvilita»: fatti un giro nei negozi del centro, gli rispose l’intellighenzia di sinistra che sei mesi dopo l’avrebbe votato, e vedrai come siamo avviliti. Prima di lui, il cardinale Giacomo Biffi la dipinse «sazia e disperata». Anche lui fu sbeffeggiato.

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