In prima pagina ci aspettavamo le bandiere rosse. Ma ci ritroviamo con la réclame del mulino bianco: «Sono cresciuta in un paese fantastico di cui mi hanno insegnato a esser fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi e cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare e chiedere scusa e permesso erano principi condivisi di una educazione condivisa». Ci mancano solo i bomboloni alla marmellata, gli uccellini che cantano, gli scoiattoli che suonano, e lo slogan finale: «LUnità, come natura crea», oppure «LUnità, mangiar bene per sentirsi in forma».
Perché questa è la nuova linea, a quanto pare. Si stava meglio quando si stava peggio, e cioè in quei tempi genuini, ah quelli sì che erano tempi, quando le nonnine lavavano il bucato con la cenere in riva al fiume (ma solo perché non cera ancora la lavatrice). Fatto sta che questo nuovo zuccheroso giornale dei lavoratori firmato Concita de Gregorio non riesci a staccartelo dalle mani, tanto è appiccicosa la melassa riversata nel fondo desordio. Mai un guizzo, un stoccatina rivoluzionaria: solo pan di spagna multistrato. E dire che un editoriale in perfetto stile democristiano sullUnità non sera mai visto dai tempi di Gramsci. Cioè da sempre. Ma questi sono i tempi di Concita, alla quale auguriamo una quantità di successi proporzionati alloverdose di glucosio contenuta nel suo debutto. Alla riga 11, dopo lennesimo ritrattino alla Piccolo mondo antico, la mano corre al fazzoletto: «Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro a rileggere i testi dei nostri padri». Dove la De Gregorio abbia mai visto questo paradiso dove gli insegnanti fanno gli straordinari gratis (e non cera ancora Renato Brunetta) proprio non sappiamo dirlo. Di certo avevamo fatto la bocca alla Concita concitata, quella penna aguzza che abbiamo imparato a conoscere su Repubblica: un fuoco dartificio, o almeno un colpo di schioppo, che so, una batteria di mortaretti. Invece solo pan di spagna e marmellata: più che il foglio degli operai, sembra quello dei pasticcieri. Ci immaginavamo riferimenti a Marx, Engels, Nenni, Togliatti, o perlomeno a Bersani: non certo a Carosello e alla pubblicità di Carmencita.
E invece la ricetta è tuttaltra: una tonnellata di buonismo mieloso, due quintali di ovvietà stomacanti, e condire il tutto con una spolverata di banalità. Mettete in forno e otterrete il risultato: Veltroni in formato cartaceo. E cioè quel coma diabetico che leggiamo alla riga 195: «La solidarietà vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo... solidarietà tra generazioni, fra genti, tra uguali ma diversi». Per non parlare delliperbole di luogocomunismo alla riga 80: «Se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle gambe puoi sposare un milionario». E poi? Quali alti concetti politici vogliamo aggiungere? Che non si trova più un parcheggio a pagarlo oro? Che i neri hanno il senso del ritmo? Che cielo a pecorelle, acqua a catinelle?
E pensare che non devessere stato facile, per il neodirettore, vergare il nulla per 273 righe, più di 9 mila battute a base di zabaione e zucchero a velo. Le agenzie lo definiscono «editoriale soft». Ma qui altro che soft: sono nove colonne di morbidezza. Roba che frate Cionfoli a confronto è un kamikaze. E così, alla riga 154, ennesimo canto degregoriano: «Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli». E ancora, alla riga 204, ennesimo strato di cioccolata: «Regalare per Natale la Playstation non è lalternativa alla speranza. Leggete, pensate, imparate». Fateci caso: manca solo il solito cenno a Kennedy e Fonzie, e avremmo la fotocopia di un discorso di Veltroni. Non a caso alla riga 239, prima di annegare nella sua panna montata, De Gregorio sconfina nel «ma-anchismo» di Walter, delineando così la rotta del quotidiano: «Sarà un giornale diverso, ma sarà sempre se stesso». Chiaro no? Lunico slancio, di difficile comprensione, è quello che si legge alla riga 135: «Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia... aprire e non chiudere... ascoltare e non voltarsi le spalle».
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