Diritti e uguaglianza, quel nazionalbolscevico del compagno Adolf

Per la maggior parte dei tedeschi, il regime nazista non significò una spietata dittatura, ma una concreta opportunità di eguaglianza economica. Questa la provocatoria tesi del ben documentato volume di Götz Aly (Lo Stato sociale di Hitler, Einaudi, 2007, euro 24,50), secondo il quale il nazionalsocialismo rappresentò una delle utopie socialiste del secolo scorso, ricavando da questa sua tendenza «rivoluzionaria» un ampio consenso da mettere al servizio dei suoi disegni criminali.
Nel 1940, Hitler disse di aver edificato «uno Stato nazional-popolare», nel quale si stavano abbattendo «tutte le barriere sociali», grazie ad una avanzata tutela della famiglia (mutui per i giovani sposi, assegni familiari e contributi per l’istruzione dei figli), un esteso apparato di misure a favore di disoccupati, anziani, bisognosi, un piano di edilizia popolare, l'istituzione delle ferie e dei congedi retribuiti, la protezione di piccoli contadini e artigiani contro il latifondo e la grande industria.
Il regime assistenziale di Hitler resistette anche alla prova della guerra, almeno fino al 1943, quando la popolazione tedesca riuscì a mantenere un soddisfacente livello di vita, grazie al saccheggio dei Paesi conquistati, al lavoro forzato di molti milioni di lavoratori stranieri, al plus-valore economico dell’Olocausto, che fece affluire nella casse del Reich i beni espropriati a milioni di ebrei prima di essere condotti allo sterminio.
Ma lo Stato nazionalsocialista non si accontentò di essere soltanto un avanzato modello di Stato sociale. Mentre un duro sistema fiscale taglieggiava il reddito delle imprese e delle professioni, l’istituto della proprietà privata era compromesso da una legislazione che limitava i diritti dei proprietari di immobili e beni finanziari, i quali secondo Goebbels dovevano ridimensionare le loro pretese economiche, a favore di inquilini e debitori, se volevano conservare la «protezione» che lo Stato accordava «graziosamente» ai loro possessi.
Per definire questo sistema Aly parla di una «dittatura compiacente» verso proletariato e piccola borghesia, ispirata a semplice opportunismo, che avrebbe spinto Hitler e i suoi seguaci ad agire «come classici uomini politici attenti agli umori dei propri amministrati». Al contrario, le aperture sociali del nazionalsocialismo erano iscritte nel suo patrimonio genetico. Molti gauleiter avevano militato nel partito socialista e molti di loro avevano a lungo considerato nazismo e comunismo «una specie di giovani fratelli». Altri, come Otto e Gregor Strasser, si erano spinti a elogiare il carattere «patriottico» dell’esperienza bolscevica e avevano tentato di fondere le caratteristiche delle due ideologie nel cosiddetto nazionalbolscevismo, prima di essere messi fuori gioco dall'ala destra del movimento nazista.
Il welfare hitleriano incontrò vasti consensi nell’Italia fascista. Nel 1938, un giovane economista, Paolo Emilio Taviani, destinato poi a ricoprire alti incarichi di governo nella prima Repubblica, scriveva un saggio significativamente intitolato: Come la Germania nazista risolve il problema classista. Nello stesso periodo, il futuro storico del Pci Delio Cantimori esaltava il significato delle riforme sociali varate da Hitler. Nelle pagine della sua inedita Storia del movimento nazionalsocialista (conservata nell’Archivio Centrale dello Stato), Cantimori mostrava grandissimo interesse per le posizioni dei fratelli Strasser, che meritavano di essere valutate «dottrinalmente» per aver posto le basi di un «anticapitalismo socialnazionale».
Ma l’«esperimento comunista» intrapreso dal nazismo affascinava anche altre forze politiche.

Nell'estate del 1944, poche settimane dopo la liberazione di Roma, veniva pubblicato nella capitale una biografia di Otto Strasser, accompagnata dalla prefazione di un militante del Partito d’Azione, Pietro Bullio, che avvicinava l’esponente nazionalbolscevico a Carlo Rosselli e lo definiva un «vero Socialista».
eugeniodirienzo@tiscali.it

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