La discutibile «tutela» degli assistenti sociali

Caro Granzotto, con la vicenda dei due bambini di Basiglio, sottratti ai genitori per un errore della magistratura, abbiamo toccato il punto più basso della civiltà giuridica. Non è bastata la scandalosa vicenda di Rignano Flaminio conclusasi con un nulla di fatto a mettere sull’avviso la magistratura: si insiste nel togliere la patria potestà senza prima esaminare bene i fatti, senza mai avanzare il minimo dubbio sulla veridicità delle dichiarazioni di infanti e, di contro, sulla malafede dei loro genitori. Abbracciando la loro piccina, i genitori di Basiglio hanno detto: «Poi penseremo a regolare i conti». Spero saranno conti molto salati.


Dai fatti di Basiglio, di Rignano Flaminio e di molti altri che li precedettero, dobbiamo sconsolatamente desumere che le vicende giudiziarie nelle quali sono coinvolti dei minori sono fortemente influenzate dalla figura dell’assistente sociale (anzi, assistente nel sociale). È a lui, infatti, che in qualità di esperto, di qualificato, il più delle volte spetta la prima - che poi è anche l’ultima - parola sull’opportunità o meno di togliere i figli ai genitori. Giudizio ottenuto in base ad argomentazioni astratte, sociologiche, sovente senza un preventivo colloquio con le parti in causa, padre e madre da una parte, figlio o figli dall’altra. E questo perché all’assistente sociale - il «professionista competente ed esperto della globalità» - vengono attribuite, a mio avviso sconsideratamente, virtù e competenze che sono il risultato, caso mai, di lunga esperienza e tanto buon senso. Cose che non s’imparano certo ai corsi di laurea in Servizio sociale o quelli per Operatore socio-assistenziale. Quale sia l’àmbito dell’apprendimento degli assistenti sociali è ben illustrato da un’iniziativa di questi giorni a loro riservata: gli «Incontri di social dreaming». E cosa sia il «social dreaming» è presto detto: «Una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione non del mondo interno dei sognatori, ma della realtà sociale ed istituzionale in cui vivono. Dal punto di vista implementativo, si sviluppa nel setting circolare o a fiocco di neve che, lasciato vuoto e libero per ospitare idealmente le immagini e i vissuti, per posare al centro, consente di far sviluppare e comporre la così detta matrice di social dreaming». E questo basti. La seconda considerazione che si trae dalle vicende giudiziarie nelle quali sono coinvolti dei bambini è che si assiste al recupero di una pratica disumanizzante germogliata a Sparta, coltivata da cattivi maestri quali Rousseau, promossa dal giacobinismo e approdata poi al comunismo leninista e stalinista: delegare allo Stato l’educazione dei minori, dei quali deve prendersi cura sottraendoli all’ambiente borghese, arcaico e malsano della famiglia. In casi che vedono bambini chiamati in causa, il primo provvedimento adottato è infatti sempre quello: «tutelarli» allontanandoli dal nucleo familiare per affidarli ad una «comunità», all’impersonalità statale. Lasciandoveli il più a lungo possibile, anche quando cadono non solo le prove, ma i più incorporei sospetti di colpe o responsabilità dei genitori.

Perché comunque sia, comunque si siano svolti i fatti, l’istituto della famiglia è ritenuto un male procacciatore di altro male, inadatto pertanto a crescere, formare e educare i figli (ruolo che probabilmente gli operatori nel sociale, col bagaglio della loro scienza e magari con l’ausilio d’una dozzina di sedute di «social dreaming», presumono di poter assolvere meglio di un genitore). Assieme a lei, caro Porta, confido che il conto sia salato. Salatissimo.

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