Roma - E vai, un concerto di Springsteen si riconosce subito: vedersi si vede, e ci mancherebbe perché il palco è semplice e squadrato, giusto lo spazio per i musicisti e un paio di megaschermi per gradire. Ma lì per lì non si sente nient’altro che il boato della gente, ma proprio niente, altro che musica. Quella arriva dopo, e che musica. Quando sale in scena qui all’Olimpico dopo l’introduzione presa da C’era una volta il West di Morricone (e alle 22,30, con mezzora di ritardo), si capisce perché Springsteen è l’ultimo re del rock e, soprattutto, perché è l’ultimo re buono, niente scandaletti privati, niente pacchianerie assortite, solo liturgia e paramenti rock perché in fondo il concerto è un rito decisivo ma è la star che si deve avvicinare al pubblico, mica il contrario come accade quasi sempre. «Ciao Roma». Perciò ieri l’Olimpico è stato per tre ore su di un piano solo, il divo Bruce in jeans e camicia grigi, la stellare E Street Band, 45mila persone e le canzoni, tutti insieme appassionatamente in una catarsi che lui, vispo come un grillo alla faccia dei sessant’anni che compie tra due mesi, conduce come sempre, sudando, sbraitando, rotolandosi per terra neppure fosse un debuttante che se la gioca tutta. «C’è qualcuno vivo là fuori?» si chiede infuriato. D’altronde il re buono è nel bel mezzo di un furore comunicativo che da più di due anni lo tiene sempre in tour, scompaginando il rituale come gli piace, senza regole. Tanto per spiegarci, nei concerti di questo «Working on a dream Tour» lui ha già eseguito oltre cento brani diversi e trentacinque cover, scegliendo così tanto a caso che qualche volta lui attacca con le prime note del brano e i suoi musicisti non sanno come andare avanti, impreparati pure loro (e difatti qui fa una imprevista She’s the one e poi, a sorpresa, dice in italiano «Dedico questa canzone alla gente dell’Aquila» ed esegue una toccantissima My city of ruins). Certo, in scaletta ci sono i classici (ma non tutti, Born in the Usa mica c’è), dalla cupa speranza dell’iniziale Badlands fino alla resurrezione dolorante di The rising, quasi il concerto fosse un abbecedario di ciò che questo poeta spoglio ha attraversato sempre a modo suo, con il piede sull’acceleratore e il gomito fuori dal finestrino. Il buio. Il conforto. La speranza. In tutto questo tempo, Springsteen ha condiviso il cammino con il suo pubblico, le glorie e i travagli e i dischi così così, e lo ha fatto così candidamente fino ad arrivare oggi al più puro degli scambi: suona su richiesta. Neanche fosse un juke box, il Boss esegue le canzoni (di solito tre) che i fans gli chiedono esibendo in platea cartelli con i titoli, anche i più imprevedibili. Lui guarda, sceglie e via, one two three four. D’altronde questo è il suo segreto a cielo aperto: annullare le distanze. È arrivato venerdì sera a Roma dalla Francia e si è portato dietro due figli e, novità, pure la madre ottantenne, Adele Zirilli, che nel sangue ha l’ottimismo riservato di Vico Equense, paesino vicino a Sorrento. Sono stati insieme, sabato sera, dopo una giornata di shopping e hanno cenato in albergo mentre là fuori, davanti all’ingresso dell’hotel De Russie, c’era la fila di gente che aspettava il re, pacata, entusiasta. Erano gli stessi, quarantenni, cinquantenni, persino settantenni vestiti come a Woodstock, che ieri sera si sono scalmanati durante le tre ore di un concerto quasi perfetto. Non importava quale brano, se Out in the street o American land oppure Born to run. Importava esserci al debutto nello stadio Olimpico di questa rockstar che ha annullato le barriere per sopravvivere e non diventare una triste caricatura di se stesso. Perciò lui scherza sul palco, s’inventa piccole gag e parla pure in italiano. E allora i brani nuovi, quelli del suo cd Working on a dream, sono soltanto due (quello omonimo e lo splendido Outlaw Pete) perché chissenefrega della promozione, qui si fa musica altrimenti non ci si diverte più e allora addio a tutta la baracca. E addio anche alla E Street Band, tutti working class musicians, da Max Weinberg a Little Steven a Clarence Clemons, tutti buoni artigiani dello strumento (l’eccezione è Nils Lofgren, uno che la chitarra se la mangia) che sono la scenografia indispensabile del rito.
È a loro che Springsteen guarda quando ci scappa qualche dissonanza ed è a loro che in fondo si deve il merito fondamentale di questo concerto, l’agilità, la beata incoscienza di chi suona con un re come se fosse a una festa di paese perché l’importante, alla fine, è sempre sentirsi soddisfatti bevendosi una bella birra quando le luci sono ormai spente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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