Cultura e Spettacoli

UNA DOMENICA MATTINA D’ESTATE Amarcord in bicicletta

Le domeniche mattine, specie d’estate, non sono quelle di anni fa. A cominciare dal suono delle campane, riprodotte da incisioni su nastro. Scomparsi i campanari, restano ferme, soppiantate dalla tecnologia.
In Toscana c’erano paesi che gareggiavano a chi meglio le faceva squillare; le vallate echeggiavano dei loro impeti; e anche quando i battagli avevano smesso di martellare il bronzo, ne restava nell’aria la eco, che si spegneva poco a poco, alla stregua di un sibilo. Alcuni vecchi mi hanno raccontato di quando Giacomo Puccini componeva Tosca. All’alba, dalla sua villa di Chiatri (collina dirimpetto a Torre del Lago, oggi Chiatri Puccini, come Celle Puccini, toponimi ideati da Giuseppe Arturo Lenzi, ex sindaco di Pescaglia), la domenica mattina, s’incamminava sui promontori, nel bel mezzo del ritmo dei bronzi e dei battenti, alla ricerca d’un finale al suo melodramma. I fantasmi di Scarpia e Cavaradossi non gli davano tregua; e quelle colline dovevano sembrargli i bastioni di Castel Sant’Angelo.
Oggi, le domeniche mattine non sono più dominate dallo scampanio. D’estate, se ci alziamo di buon’ora, lo facciamo allo scopo d’attendere agli hobby, tra cui le escursioni in bicicletta, da corsa e mountain-bike. Quest'ultime impensabili ai tempi della mia infanzia, quando i velocipedi erano da passeggio, e pochi coloro che disponevano di quelli sportivi: privilegio di signori, o di chi voleva dedicarsi al ciclismo. Benessere e innovazione tecnologica, ci hanno invece portato velocipedi per tutti i gusti.
Da soli o in gruppo, i ciclisti s'allontanano da casa quando la penombra vince ancora sul sole. Vestiti in completi variopinti, affrontano le strade con pedalate energiche e costanti su biciclette con cambi automatici e l'apparenza di giocattolo, tanto sono belle, siano da corsa o da percorso misto come le mountain-bike. Non le inforcano solo gli uomini, ma anche le donne, sovente più appassionate dei maschi, a cui danno, come si suol dire, la polvere. Cosa che qualcuno non le perdona e ne resta umiliato. Ai ciclisti si uniscono i centauri. Anche le loro motociclette sembrano giocattoli e sfrecciano come arnesi guidati a distanza. Le strade d'asfalto traversano paesaggi a tratti curati, a tratti incolti: una giungla d'occidente, visto che gli alberi sono imprigionati dalla sterpaglia e antiche vie e sentieri sono scomparsi sotto l'incalzare del bosco. Non di rado compaiono case e capanne fatiscenti, porte e finestre nere alla stregua di occhiaie.
Sto raccontando la strada che, da Lucca, conduce nella Valle del Serchio, terra cara a Giovanni Pascoli, Alfredo Catalani, e che dette i natali agli antenati di Giacomo Puccini. Sovente la percorro con la mia bicicletta da corsa, una Colnago degli anni Ottanta rossa, movimenti Campagnolo e cambio manuale. Un velocipede obsoleto, nell’epoca del consumismo e della rottamazione, gli antipodi di cultura e memoria. Quella memoria che dovrebbe farci capire non tanto come eravamo, ma in cosa siamo migliorati. Una domanda che m’inquieta e, a cui, non riesco a dare risposta. Specie se valuto il paesaggio che mi circonda, a cominciare dal cielo che sovrasta le punte rupestri e che non vedo più limpido. C’è nell'aria come un velo di stanchezza, la medesima che mi si para davanti agli occhi quando scalo una salita. Ho letto che a provocare ciò sono buco nell’ozono e inquinamento. Dove prima erano prati e riva del fiume Serchio, s’alzano fabbriche e industrie. Per lunghi tratti ne è nascosto. Ma, d’improvviso, riappare: il suo alveo, che talvolta sembra di torrente, traversa campi e vigne e si affianca alla ferrovia riconquistando il grande letto che, d’estate, ha poca acqua e tanti ciottoli bianchi e levigati, quasi il tempo non avesse voluto consumarli più di tanto; i sassi sono la spina dorsale della terra, e recano in sé i misteri della Creazione. Su tavole di pietra, Dio scrisse, sul Sinai, i Dieci comandamenti, che basterebbero per governare l’umanità.
Il sole irrompe, ma fiume e bosco mitigano la calura. Nella Valle si sta svolgendo una sorta di giro d’Italia, parallelo a quello di tanti paesi d'Europa e del mondo, che hanno riscoperto nella bicicletta una maniera per fuggire da ansie e angosce. Chissà se il suo inventore aveva previsto tanto.
La bicicletta è infatti una scoperta piuttosto recente. Le prime comparvero nel 1700. Fu un francese di nome De Siorac o Siorac a costruire la prima, ma con l’intento che restasse un giocattolo. Altri, nel corso degli anni, vi apporteranno migliorie e modifiche, finchè nel 1900 fu ideato lo «scatto libero» o «ruota libera»: dispositivo che permette al cerchio posteriore di continuare a girare anche se il ciclista non pedala. Ciò per dire la nostra bicicletta non è un oggetto anonimo, ma ha una storia. Quelle appartenute ai grandi campioni sembrano esprimerne carattere e personalità. Ricordo d’aver veduto, esposta nella vetrina di un bar di Lucca, una Bianchi con la quale aveva gareggiato Fausto Coppi. Verde chiara e con pedivelle d’acciaio lucido, il suo telaio, forte e slanciato, dava l’impressione d’aver assorbito la potenza muscolare del campione, il suo respiro quando affrontava le salite impervie. Me lo immaginavo davanti, coi muscoli dei polpacci tesi, lo sguardo rivolto alla strada con quell’espressione del volto tenace e malinconica, ma determinata non tanto a vincere, quanto a fuggire da qualcosa che lo turbava e da cui non riusciva a sottrarsi: il presentimento della morte, che sempre s’insinua nei pensieri dei campioni e degli eroi. Riudivo le storie che raccontavano su di lui i vecchi all’osteria, quando l’avevano veduto correre in una tappa a cronometro: le ruote della Bianchi, tanto giravano, non si vedevano.
Continuo a costeggiare il Serchio, ora lungo la campagna, ora nei centri abitati dove, tra capanne e baracche, si trovano recinti con cavalli; altri, sellati, camminano lungo l’argine. Gruppi di ciclisti mi affiancano, mi superano dopo avermi squadrato, ma non sempre rispondono al mio saluto. Alcuni hanno un contegno altero, per non dire sprezzante. In parte, credo, dovuto al fatto che sono un corridore anomalo. Non viaggio su una bicicletta ultimo modello, non indosso una tuta di marca. Insomma, non mi vedono dei loro, anche se partecipo allo stesso giro e alla stessa gara: di sottrarmi, almeno quando sono in sella, a pensieri e preoccupazioni, gli stessi che, a seconda dell’età, fanno vedere la vita in maniera diversa. Non corro, dunque, per tagliare un traguardo o raggiungere una meta. Corro per ritrovare quanto ho perduto.
Al margine della strada, non ritrovo le antiche capanne col bestiame, di cui s’avvertiva l’odore di fieno e di stallatico. Sono state trasformate a casa, oppure sono abbandonate o fatiscenti. Dalle cime delle montagne, cominciano a staccarsi dei grandi «aquiloni»: bianchi, rossi e verdi veleggiano nel cielo con movimenti incerti, con brevi picchiate. Sono deltaplani. Penso che deve essere bello guardare il mondo da lassù, se non altro per scorgerne meglio il paesaggio. Gruppetti di persone s’incamminano verso il greto del Serchio, con sedie e borse in spalla: vi trascorreranno il mattino e parte del pomeriggio. Macchine stracolme sfrecciano verso l’Appennino. Vogliono arrivare prima di mezzogiorno. Passa qualche moto Guzzi d’epoca, col rombo scoppiettante, e qualche vettura storica, dalle carrozzerie pesanti e i profili che brillano. Ma i padroni della strada continuano a restare i ciclisti. I loro corpi, uniti ai telai dei velocipedi, sembrano arti di metallo e di gomma. Il sole è ormai sovrano e gli Appennini si stagliano nel suo abbaglio. La Pania s’innalza aguzza e sembra aver preso il colore dal cielo, tanto è pervasa da una cappa azzurra.
Abbandono la pianura e m’inerpico in una salita che mi condurrà su quelli che furono gli antichi percorsi degli etruschi, in mezzo a boscaglie e gole. Al margine della strada si trova un torrente, che fluisce tra i massi. Cantano le cicale, ma non con veemenza; appaiono stanche, se non avvilite. La fatica di procedere in salita fa rallentare immagini e pensieri, e vedo quanto mi circonda alla stregua di fotografie. I filari delle vigne sono scomparsi, al posto dei campi coltivati ci sono dei prati con erba selvaggia. D’un tratto scorgo due caprioli: corrono alla volta della boscaglia. A tratti d’ombra, s’alternano spazi assolati, l’aria sa di polvere. Sorgenti sgorgano dalla roccia, in prossimità della vegetazione. Passa qualche macchina, ma più col fare di voler fuggire da qualcosa, che non di giungere a destinazione. Costeggio casolari restaurati. Vi abitano stranieri. Rivedo, come fossero ombre, gli antichi abitanti. La domenica mattina stavano nei pressi della stalla o nell’aia a conversare. In una piccola casa di forma rettangolare, sulla sponda di un rio, abitava un uomo dal volto magro, i baffi sottili. Non sono mai riuscito a dargli un’età. La sua rimessa era sempre piena di merce che venivano a caricare coi muli gli abitanti dei paesi, tra cui i bottegai, quando ancora non c'erano le strade carrozzabili e si viaggiava lungo la mulattiera, una via di sassi che sfiorava tenimenti, corsi d’acqua e capanne. Adesso, quella strada, è abbandonata, invasa dagli sterpi, nonostante le origini preistoriche.
Curva dopo curva, ma con l’occhio al paesaggio che digrada verso la valle, m’avvicino ai paesi, li sfioro e continuo: sul crinale si trova quello in cui sono nato. Tra il verde rosseggia qualche tetto, ma basta arranchi pochi metri e scompare sotto i poggi; una strada bianca di polvere s’inoltra nei poderi. Davanti, ho il baluardo della montagna; qualche poiana rotea nell'azzurro. Si delinea il paese, le case grigie, alcune scialbate di bianco. Ma basta una curva perché scompaia. Vi giungo quasi d’improvviso, dopo un sali e scendi. Il sole del tardo mattino non arriva ancora nei suoi vicoli. Procedo con la bicicletta al fianco. D’inverno le porte sono quasi tutte chiuse. D’estate no. Ci sono i forestieri. Gente che non conosco. Svanita l’antica musica dei rumori e delle voci, con quei silenzi che ne erano le pause. Entro in casa. Una casa antica dell’Appennino, con pavimenti e pareti di tavole corrose dai tarli. Dagli intonaci gonfi come varici, cade polvere simile alla sabbia delle clessidre. Sento che mi accoglie con l’amore e l’affetto della nonna verso il nipote. Ora che è sempre sola, io sono la sua vita. Ricordo le estati di mezzo secolo fa, i parenti nella sala, i mercanti che venivano a comperare burro, formaggio e uova. Un mondo che mi sembrava non dovesse finire mai. Raccontavano anche che uno spettro abitasse tra quelle mura. Mio padre, una notte, fu costretto a venir via. Una pianella saliva e scendeva le scale, passeggiava nelle stanze senza che si vedesse alcuno. A me è accaduto d’essere sfiorato come da un alito gelido e d’avere sensazione che qualcuno mi stesse accanto.
M’aggiro nelle stanze, apro le cassapanche, guardo vecchie foto appese ai muri. Tra cui quella della bisnonna, gli abiti lunghi e con due bambini in braccio. I suoi occhi mi fissano, sento vuole dire qualcosa. Poi guardo i bagliori del sole riflessi nei muri. Non sono cambiati. Ne ravviso le forme.

Delle mie domeniche mattine sono rimasti loro.

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