Don Sturzo: un'eredità tra i due poli

Antonio Belotti

Un uomo unisce e divide centrodestra e centrosinistra, accomuna e contrappone Prodi e Berlusconi nel momento in cui ne rivendicano l'eredità ideale: è don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, esule durante il fascismo e in un certo senso pure dopo, quando la sua Dc riuscì a confinarlo in una nicchia per mettere la sordina ai suoi continui appelli contro lo strapotere dei partiti e la loro mentalità centralistica, contro il debordare delle burocrazie e dell'economia pubblica a danno del mercato e dell'iniziativa privata, contro la corruzione a tutti i livelli. Un padre nobile insomma capace di guardare lontano più di ogni altro, lucido nelle sue analisi al punto che a 46 anni dalla scomparsa i suoi richiami appaiono di assoluta attualità.
Ad invocarne l'autorevolezza è sceso in campo di recente anche Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, deciso a denunciare lo «svuotamento pericoloso e irresponsabile» della Costituzione operato dalla Casa delle Libertà con la cosiddetta «devolution». «La Costituzione - sottolinea Bazoli - era per don Sturzo la base intangibile della vita nazionale». Da qui l'appello del centrosinistra a cancellare con il referendum la contestata riforma imposta, si dice, da Bossi, con la quale si attribuiscono nuove competenze alle Regioni e si modifica la fisionomia del Parlamento. La Lega certamente esulta, ma basta una semplice occhiata agli storici programmi leghisti dal 1983 in poi per constatare che le rivendicazioni sono state annacquate e il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ha ben poco di innovativo e niente di rivoluzionario. Interpellata, la vedova Miglio ha assicurato che il defunto consorte avrebbe addirittura, se ne avesse avuta facoltà, votato contro. In ogni caso la Costituzione ha sempre pacificamente ammesso l'ampliamento delle competenze regionali (art. 118) ragion per cui materia di scandalo non pare proprio sussistere. E poi c'è di mezzo Sturzo. «La Regione da far sorgere - diceva - deve essere un ente elettivo-rappresentativo (elettorato diretto, a suffragio universale, comprese le donne, e a sistema proporzionale), autonomo-autarchico (non sia quindi un ente statale con poteri delegati), amministrativo-legislativo ossia dotato di finanza propria con facoltà di imporre tributi e che... statuisca leggi e approvi regolamenti tali da aver vigore nell'ambito del proprio territorio».
Per Sturzo le materie di competenza regionale dovevano essere i lavori pubblici, «meno le grandi arterie di comunicazione stradali, ferroviarie e fluviali, meno le opere militari o demaniali, meno i grandi porti»; le scuole elementari, secondarie e professionali («le scuole universitarie - diceva - debbono essere autonome e liberamente operanti»), l'industria, commercio e agricoltura e infine beneficenza-igiene specificando per quest'ultime una competenza più locale e provinciale che regionale. Il riferimento al voto delle donne indica già una datazione del pensiero di Sturzo ante 1946; si resta increduli nel verificare che queste ed altre prese di posizione per noi ancora in fieri (basti pensare al federalismo fiscale) furono espresse il 23 ottobre 1921 dalla tribuna del terzo congresso nazionale del Ppi. Ed è quindi sconcertante che ottant'anni dopo si accusi chi opera nel solco di queste indicazioni di dividere il Paese.
A margine va poi sottolineata la contrarietà di Sturzo al trasferimento alle Regioni delle grandi reti di comunicazione. Il centrosinistra aveva stabilito il contrario, il centrodestra ha seguito Sturzo.
Di acqua sotto i ponti ne è passata quando una decina di anni fa il Cavaliere definiva il federalismo della Lega «fumoso e parolaio» e il Senatùr gli replicava assicurandogli che «chi cade per mano della Lega non torna più a palazzo Chigi». Slogan arditi che assomigliano ai molti che intercorrono oggi tra Polo e Unione e che bisognerà trovare il modo di superare. Che la recente riforma presenti gravi difetti è più che probabile, ma sono essenzialmente quegli stessi limiti presenti nell'analoga riforma dell'Ulivo, vale a dire soprattutto la scadente disciplina del rapporto Stato-Regioni. Ma bocciare un testo che bene o male fa fare passi avanti alle istituzioni, che addirittura riesce nell'impresa titanica di ridurre il numero dei parlamentari, non sembra cosa seria.

C'è da sperare che dopo la guerriglia elettorale i due poli riescano a trovare il filo di un confronto costruttivo su una riforma che, nei suoi principi, è ampiamente condivisa. Le regole del gioco decise da una delle due parti costituiscono una pagina di storia costituzionale che non fa piacere leggere.

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