Il doppio gioco dei prodiani pentiti

Da italiano semplice stupisco di come sia andata smarrita la capacità di lettura in trasparenza degli avvenimenti che caratterizzava la prima Repubblica e che fu privilegio del ceto democristiano come di quello comunista. Fulminante al proposito una battuta di Cirino Pomicino che osservando - durante il Termidoro di Tangentopoli - il precipitare degli eventi ebbe a confidare in perfetto dissacrante partenopeo: «Mo’ i foderi combattono e le sciabole stanno appese!».
Eh già, pare proprio così. Ho atteso alcuni giorni per vedere se da qualche recondito ambito venisse data una lettura diversa del caso Forleo, ma mi è parso che al di là della bega sulla caduta della presunta e mai esistita positiva diversità morale dei comunisti non si sia andati. Nessuno si è chiesto cui prodest? Nel frattempo si sono appalesati due elementi in qualche misura sorprendenti: Repubblica che spara ad alzo zero sui diessini intercettati e intercedenti per Consorte e il cavalier Berlusconi che si rifiuta di schierare le truppe di Forza Italia contro gli avversarsi. La lettura è stata un po’ elementare: Repubblica, si è detto, fa il tifo per Veltroni; Berlusconi non vuole venire meno al suo profilo garantista. La dietrologia si è spinta in questo secondo caso ad evocare un evanescente quanto improbabile disegno inciucista.
Conosco bene Repubblica e conosco abbastanza bene il mondo delle Cooperative rosse. All’ombra delle intercettazioni di D’Alema & C. si cela qualcosa di più e di molto diverso da un semplice comitato d’affari. C’è la vera spartizione del potere in Italia, quello dei soldi, ma anche quello delle (non) regole. Lo rivela callidamente lo stesso Latorre quando chiacchierando al telefono confessa: abbiamo la possibilità di cambiare gli assetti di potere del Paese. Letto dall’interno del sistema cooperativo e della sinistra quanto hanno detto (e forse fatto) D’Alema, Fassino e Latorre è nobile e conseguente. Anche se perverso e politicamente inaccettabile spiega la loro rabbiosa reazione. Si sentono accusati di qualcosa che nella loro etica rossa è perfettamente coerente. È la versione moderna dell’egemonia gramsciana.
C’è un’ambizione - forse anche legittima - del sistema cooperativo di far pesare, erga omnes e non solo nel ridotto sinistro, in termini sociali e politici il suo patrimonio ultramiliardario. Consorte questo aveva in testa. E il trio diessino questo voleva che accadesse. Per arginare il corrompimento della sinistra troppo subalterna ai potentati economico-bancari che sono quelli che hanno riportato - per disgrazia degli italiani - Romano Prodi al potere e per evitare di essere eterodiretti dai padroni del vapore che oggi sono amici, ma che... del diman non v’è certezza.
In qualche modo D’Alema, Fassino e Latorre sono la Maginot della chiarezza politica. Poi si può ed è giusto discutere se la spocchia morale che dimostrano sia fondata, si può verificare se la battuta secondo la quale imperante D’Alema a Palazzo Chigi si fosse insediata una Merchant Bank (la battuta è di Guido Rossi e tanto basta) abbia fondamento. Ma è un fatto che il sistema delle cooperative se legittimato diventa un contropotere economico capace più di disturbare la gauche caviar che non il capitalismo e il liberismo duro e puro alla Berlusconi. A sinistra i veri nemici delle coop e dei dalemiani sono quelli che non amano Prodi e che odiano Berlusconi per il semplice fatto che è una barriera economica troppo forte e un presidio politico troppo ingombrante. E questo spiega la posizione di Repubblica. Posso immaginare il conciliabolo tra Mauro e i suoi colonnelli che si domandano come accontentare le smanie politiche dell’Ingegnere senza dare l’impressione di voler scaricare Prodi. Che è poi il vero obbiettivo: troppo inconcludente, troppo ingombrante, troppo perdente. Walter Veltroni è il solo beneficiario del caso Forleo, ma De Benedetti è il vero reggitore dei fili. Questo spiega anche la singolarità del fatto che l’attacco al trio diessino è partito da Milano. De Benedetti è anche quello che ha in tasca la tessera numero uno del partito democratico, è lo sponsor non dei riformisti, ma dei gattopardi nel milieu del centrosinistra. Non sarà sfuggito ai lettori che domenica Eugenio Scalari, il fondatore della linea ortodossa di Repubblica, ha parlato d’altro nella sua messa cantata. Ci deve essere un certo scontro anche dentro Repubblica. Ed è sicuro che De Benedetti muore dalla voglia di mandare a casa Prodi.
Ci sono affarucci in ballo (Alitalia, ma anche l’appoggio dato a SanIntesa, il rafforzamento di Fiat) che disturbano l’Ingegnere e ci sono posizioni troppo prone verso la sinistra sinistra che non piacciono all’establishment della gauche caviar che tiene come è noto - soprattutto a Repubblica - il cuore a sinistra, ma il portafoglio a destra. Ecco: lo scontro sulle intercettazioni è probabilmente il tentativo di fare un doppio gioco, come a baseball: liquidare Prodi e mettere a tacere l’anima autenticamente diessina nel Pd in modo che la lobby veltronianrutelliana possa fare gli affari suoi per di più con la coscienza in pace.
Credo che tutto questo Berlusconi abbia inteso e compreso. Ed è anche per questo, oltre che per riaffermare il suo granitico garantismo e l’invalicabile limite della separazione dei poteri, che non vuole affossare D’Alema.

È preferibile per lui - ma per tutto il Paese - che la contesa sia con chi non rinnega le proprie radici e si pone come avversario piuttosto che con chi è sempre pronto a vestirsi da Arlecchino. Perché il Cavaliere sa che quella Clementina - succoso agrume senza semi, ma con molte spine - è il dessert (da de servir: cioè sbarazzare la tavola) per Prodi.
Carlo Cambi

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