Ventiquattro anni dopo la missione Libano 2, i soldati italiani torneranno nel Paese dei cedri. Era il 1982 e anche allora una risoluzione dell'Onu - scaturita dopo i tragici fatti di Sabra e Chatila - puntava a ristabilire l'ordine in quella zona. L'Italia pagò il suo tributo con la morte del marò Filippo Montesi e 75 feriti sul campo. Ricordiamo il bilancio della nostra missione di allora per mettere subito in chiaro che andare a disarmare gli hezbollah è compito ben diverso da quello che la sinistra chiama «missione di pace». Sul piano militare siamo al «boots on the ground», stiamo cioè mettendo gli stivali nel terreno dove ora combattono furiosamente israeliani e hezbollah. Spedire le nostre truppe in Libano significa impegnarsi di fronte al Paese in una missione ad alto rischio militare e politico.
Rischio militare perché gli hezbollah hanno mostrato un arsenale e una tattica insospettabili perfino per il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Rischio politico perché la risoluzione Onu ha confini incerti e gli obiettivi che si propone sono intaccati dall'idealismo e peccano di realismo. Le Nazioni Unite sono specializzate nel non ricordare le lezioni del passato: una risoluzione Onu sei anni fa ordinava il disarmo degli hezbollah. Sappiamo comè andata.
La missione in Libano - a guida prevedibilmente francese e non italiana come si sbandierava prima della conferenza di Roma - sarà il banco in cui il governo si giocherà gran parte della posta. Sul fronte estero e su quello interno. Nel primo caso, dovrà recuperare la credibilità persa con il ritiro dall'Irak (che ha raffreddato le relazioni tra Italia e Stati Uniti) e il ridimensionamento della missione in Afghanistan (che ha ridotto la nostra influenza nella Nato). Nel secondo caso, dovrà dimostrare di poter governare le ali estreme. Missione impossibile, perché le contraddizioni dell'Unione hanno immediate ripercussioni sulla nostra politica estera. Le premesse non sono le migliori e l'approvazione della missione in Libano a sinistra non appare scontata. Le ragioni sono evidenti: occupare il suolo degli hezbollah è decisamente diverso che pattugliare una Kabul già liberata dagli Stati Uniti o controllare Nassirya. In Afghanistan e Irak agiscono gruppi di guerriglieri, in Libano c'è un esercito parallelo a quello ufficiale, armato fino ai denti, ben addestrato, rifornito dal carburante finanziario e militare di Iran e Siria.
Mentre il governo manda teoricamente i soldati a fare il lavoro che stanno facendo gli israeliani (disarmare gli hezbollah) la sinistra radicale invoca regole di ingaggio da parata militare e se il buongiorno si vede dal mattino, lesecutivo ci offrirà ancora una volta lo spettacolo di una maggioranza divisa, immatura e perfino pericolosa. Pericolosa perché chi chiede regole di ingaggio da tiro al piattello sta dando un'informazione agli hezbollah che non andranno a consegnare i loro missili allOnu. C'è chi prova a erigere una diga per fermare l'ondata estremista dicendo che la missione è sotto mandato Onu. Una diga dipocrisia: anche le missioni in Irak e in Afghanistan si svolgono su mandato delle Nazioni Unite, ma questo non ha impedito la loro demolizione.
Il primo effetto di questa gazzarra è già stato ottenuto: Palazzo Chigi ha dovuto inviare una nota per spiegare che «al momento, nulla è stato stabilito».
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