Dove la democrazia vive sulle contraddizioni

di Livio Caputo

Nel primo incontro con i lettori dopo l'arrivo a Nuova Dehli, ho proposto loro tre definizioni dell'India, il Paese che, per la prima volta nella storia dei viaggi de il Giornale eravamo venuti a visitare: «La più grande democrazia del mondo»; «Il più sviluppato dei Paesi sottosviluppati»; «Titolare del Guinness dei primati per le contraddizioni». Credo che la sia pur rapida (e geograficamente limitata al Nordovest) ricognizione che abbiamo compiuto ci abbia permesso di verificare che, sostanzialmente, rispondono tutte a verità. Che l'India sia una democrazia è indubbio. Nei suoi 62 anni di vita, ha sempre avuto - con la sola, parziale, eccezione dello stato di emergenza proclamato da Indira Gandhi nel 1977 - governi regolarmente eletti, senza neppure un tentativo di colpo di Stato. Che poi la sua democrazia sia perfetta, è un altro paio di maniche. Con brevi intervalli, il Paese è sempre stato governato dal Partito del Congresso, che a sua volta è sempre stato un feudo della famiglia Gandhi-Nehru. Attraversando i miserabili villaggi dell'Uttar Pradesh e del Rajastan nel corso del nostro lungo viaggio in pullman, veniva anche spontaneo chiedersi come si svolgano in realtà le operazioni di voto in un Paese che conta ancora il 39% di analfabeti e in cui le donne - che pure godono sulla carta di tutti i diritti politici - sono ancora largamente sottomesse agli uomini. Quanti sono i voti comprati, quanti quelli estorti, quanto quelli dati su basi tribali o di clan? Certamente decine di milioni. Ma questo non toglie che l'India, in confronto alla Cina, è un paradiso di libertà.
«Il più sviluppato dei Paesi sottosviluppati» è a mio avviso la definizione più azzeccata. Avevamo letto tutti delle meraviglie di Bangalore, la Silicon Valley dell'India, contrapposte alle miserie della popolazione rurale che costituisce tuttora il 70% del miliardo e duecento milioni di abitanti. Ma abbiamo anche potuto constatare questa contraddizione de visu, raffrontando le catapecchie dei villaggi con gli avveniristici grattacieli del nuovo quartiere dirigenziale di Nuova Dehli. Se una parte del Paese è già proiettata verso l'avvenire, un'altra - molto più grande - è ancora ferma al Medioevo e richiederà decenni di sforzi prima di essere affrancata dalla povertà. Non per niente l'India è, secondo la classifica di Forbes, la patria di alcuni degli uomini più ricchi del mondo, ma ha un reddito pro-capite di neppure 600 euro; e a fronte di una élite tecnologica che tutti le invidiano, ha appena 20 pc per mille abitanti.
La terza definizione discende in linea diretta dalle prime due. L'India è, davvero, una foresta di contraddizioni. Alla magnificenza dei palazzi dei Gran Mogul e dei Maharajah e forse ancor più dei loro mausolei, che abbiamo avuto modo di ammirare, si contrappone uno squallore abitativo di gran parte della popolazione che ricorda l'Africa. Una mentalità imprenditoriale avanzata, che ha consentito negli ultimi anni tassi di crescita ormai sconosciuti in Europa, si accompagna a una religione incredibilmente complicata che, con i suoi tanti tabù, deve costituire un enorme handicap. Le donne arrivano a scalare le vette del potere - Indira Gandhi è stata primo ministro per oltre un decennio, sua nuora Sonia è a capo del Congresso, una donna è presidente della Repubblica e un'altra governa lo Stato più importante - ma vederne una guidare un'automobile o un motorino è una rarità.

Nell'insieme, credo che, oltre ad avere visitato nel Taj Mahal di Agra una delle meraviglie del mondo, che oggi sarebbe impossibile replicare, i nostri lettori abbiano fatto una esperienza eccezionale e siano tornati a casa spiritualmente arricchiti: una cosa che - diciamocelo - non vale per ogni viaggio.

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