Economia

Il «duro» che ha inventato i supermarket all’italiana

Gli inizi: un magazzino a Milano. Oggi guida un gruppo da 4,4 miliardi

Rodolfo Parietti

da Milano

«I vecchi, quando accarezzano, hanno il timore di far troppo forte», cantava il grande Fabrizio De Andrè. Vero, benché questo sia un timore totalmente estraneo a Bernardo Caprotti. Carezze, deve averne sempre dispensate poche, il patron di Esselunga. Sia ora che ha scollinato gli 80 anni, sia prima, durante tutta una vita percorsa a muso duro, controvento, senza mai dribblare. Come quei centravanti d’antan, spalle larghe e piedi ruvidi, per i quali esisteva solo il gol. Niente gioco di squadra. Meglio: niente squadra.
Caprotti è insomma un individualista incallito, abituato a stare in prima linea da sempre. O, almeno, dal 1957, data di iscrizione all’anagrafe di Esselunga, che nasce sotto il nome di «Supermarkets italiani spa» grazie anche al contributo decisivo del miliardario a stelle e strisce Nelson Rockefeller. Natali a Milano, in viale Regina Giovanna, dove c’è una grande officina in disuso adatta alla bisogna: quello sarà il primo dei 130 supermercati targati Caprotti, il primo mattone di un gruppo che ora fattura 4,4 miliardi di euro. Dissolti gli olezzi d’olio motore, eliminate le pozzanghere nerastre di grasso, rimossi dalle pareti affumicate i calendari delle pin up americane, si materializzano alti gli scaffali colmi di beni di consumo e i lunghi corridoi dove sferragliano i carrelli. E, subito, la particolare «esse» iniziale del marchio, disegnata dal grafico svizzero Max Huber, diventa la parte per il tutto: Esselunga, appunto.
Come si conviene nel miglior costume italico, Caprotti inizia tra la diffidenza generale. L’Italia dei mille campanili è la stessa abituata ad avere il droghiere sotto casa e a ciacolare col panettiere mentre compra un chilo di michette. Là, dal Caprotti, dove le corsie linde paiono quelle asettiche di un ospedale, il rischio è invece quello di imbattersi in cassiere algide e rigide come un binario. Dunque, sentenziano i detrattori, Esselunga non funzionerà. Funzionò, invece. Alla maniera di Caprotti. Che senz’altro partì ispirandosi a quel totem della grande distribuzione che risponde al nome di Wal-Mart, ma che ci mise subito del suo, andandosi a cercare di persona la «roba» da vendere, in nome della qualità. «Lavoriamo all’americana, ma vogliamo fare delle cose belle, eleganti, funzionali», ha chiarito Caprotti in una delle rarissime interviste. Cose belle come i negozi disegnati da star dell’architettura (da Ignazio Gardella - «Un amico, ma era difficile pagargli le parcelle» - a Mario Botta) o le campagne pubblicitarie affidate ad Armando Testa. Questo per dire che il signor Esselunga non è un rozzo. Al contrario, ama la pittura e l’armonia delle linee, tanto quanto detesta buonismo e sindacati, con i quali battaglia da decenni. Conservatore tutto d’un pezzo, tra i primi finanziatori di Forza Italia, Caprotti ha cuore e portafoglio a destra e - forse - un unico dio: il cliente. In nome del quale - dicono i suoi accusatori - tratta i dipendenti con il piglio autoritario di un vecchio padrone delle ferriere, sottoponendoli a turni massacranti, obbligandoli a lavorare anche nelle feste comandate, imponendogli turn-over esasperati. Qualcuno giura di averlo visto aggirarsi in incognito tra gli scaffali dei suoi supermarket, così da verificare de visu l’andazzo: un Grande fratello senza telecamere. Che però dà lavoro da quasi 50 anni.
Di sicuro, Caprotti non guarda in faccia a nessuno. Né i nudisti, cui ha rivolto il garbato invito di andar a mostrar altrove le terga, chiudendo l’area naturale di Villata, in Corsica; né fornitori provvisti di quarti di nobiltà come i Barilla, banditi a lungo dagli store Esselunga dopo una lite. E neppure il figlio Giuseppe, al quale a un certo punto aveva deciso di affidare le chiavi del vapore. Salvo poi sfilargliele, non senza far tabula rasa del management, perché troppo sbilanciato sull’e.commerce, sul biologico, sulla comunicazione, sui temi filo-ambientalisti. Tornato in sella, papà Caprotti ha tagliato i costi, riducendo però in contemporanea anche il prezzo di 8mila articoli. Da uno così, non ti puoi aspettare carezze. Che sappia far funzionare un’impresa, sì.

Magari meglio delle Coop.

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