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E Amato «bloccò» l’inchiesta su Al Qaida

Milano C’è un retroscena mai raccontato, nell’inchiesta sui terroristi islamici che progettavano di colpire il Duomo di Bologna e il metrò di Milano. La retata scattata la settimana scorsa e resa nota l’altro ieri dalla Procura milanese e dai Ros ha un antefatto. Due anni fa, quando era scattato il primo «allarme attentati», tra i diversi poteri del nostro Stato si arrivò quasi allo scontro sulla linea da seguire di fronte alle rivelazioni che arrivavano dal Marocco. La sensazione degli investigatori era di trovarsi di fronte per la prima volta ad un possibile bandolo della matassa terrorista, a una traccia che si potesse risalire con pazienza fino ad arrivare ai cervelli dell’estremismo islamico in Italia. Ma fu il governo dell’epoca a imporre che la traccia non venisse sfruttata. Fu il ministro degli Interni dell’epoca, Giuliano Amato, a ritenere che il rischio di un’azione terrorista nel nostro Paese fosse troppo grave per venire corso. Si decise quindi di intervenire subito. E la pista finì lì.
Nessuno saprà mai cosa sarebbe successo, se si fosse lasciato il «guinzaglio lungo» ai terroristi che agivano in Italia, se quella di Amato fu saggia e doverosa prudenza, o se invece si sia persa un’occasione preziosa di smantellare la rete dei fan di Al Qaida. Di certo, la lettura degli atti contenuti negli ordini di cattura sembra dire che l’occasione era davvero di quelle che non si presentano facilmente.
Tutto inizia nel marzo di quell’anno, quando in un carcere del Marocco il tunisino Mohamed M’Sahel inizia - con le buone o con le cattive - a collaborare con la polizia locale. Sono lui e il suo amico Abdelghani Aouiouiche a snocciolare l’elenco degli attentati in preparazione contro le «forze del male»: la Danimarca, la Francia, gli Usa e anche l’Italia. Nel mirino, Bologna e Milano. I servizi segreti marocchini avvisano quelli italiani che girano la segnalazione al Ros dei carabinieri e ovviamente al governo. Che fare? Le rivelazioni dei due detenuti non sono sufficienti per arrestare nessuno. I carabinieri propongono di mettere sotto controllo gli amici milanesi di M’Sahel, cercare riscontri, vedere fin dove sono disposti a spingersi. Ma dal Viminale arriva l’ordine: il rischio è troppo alto, bisogna intervenire subito.
Così si interviene con l’unico strumento disponibile: l’espulsione dall’Italia dei presunti complici della cellula. Tra questi, dovrebbe esserci anche Houcine Tarkhani, impiegato del centro islamico di viale Jenner a Milano, dove recluta correligionari pronti al martirio.

Tarkhani fugge da una uscita posteriore del centro, ripara in Francia, da lì in Tunisia, poi - inseguito da una condanna a 5 anni inflittagli nel suo Paese - ritorna in Italia via Libia e barcone. Cosa si sarebbe potuto scoprire, seguendolo mentre predicava la jihad a Milano?

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