E Ayaan chiede protezione a Sarkozy

Hirsi Ali, protagonista del film che costò la vita a Theo Van Gogh, si rivolge all’Europa: «Datemi asilo a Parigi: l’Olanda m’ha abbandonata e rischio la vita»

Non è la prima volta che Ayaan chiede aiuto. Con un sorriso triste, ma con lo sguardo di una principessa guerriera. «Non mi aspetto nulla, ma la solidarietà che ho avuto dai francesi mi ha convinto a chiedere asilo politico a Parigi». Ayaan Hirsi Ali, ha 38 anni, ma è una vita che scappa. Figlia di un signore della guerra, infibulata a cinque anni, esiliata in Kenya, sedici anni fa si rifugiò in Olanda per sfuggire a un matrimonio combinato. E lì cominciò il suo inferno. «Hirsi, la prossima sei tu» c’era scritto sul foglio affondato, insieme con la lama di un coltello, nel cuore del regista Theo Van Gogh, ucciso da un fanatico musulmano per aver girato un film, Submission, sull’orrore della vita delle donne nel mondo islamico. E la protagonista del film era lei. «Non ho paura di morire - disse - in Somalia si fa presto ad abituarsi alla morte». Eletta deputato, tre anni appena ed è ancora fuga. Stati Uniti, perché per il governo olandese la sua scorta è uno spreco, perché, dicono, un po’ se le cerca. Definisce quella islamica una «cultura retrograda» e Maometto un «perverso tiranno», dice che l’Islam altro non è che un «nuovo fascismo». Torna di nuovo in Olanda per vivere blindata in un posto segreto: «Ma la mia situazione è peggiorata, sono sempre più in pericolo». Ora chiede aiuto a Parigi e protezione all’Europa. Giovedì sera sarà a Bruxelles, dove una sessantina di deputati europei sta cercando di raccogliere le 393 firme necessarie per chiedere al Parlamento europeo i soldi per proteggere la sua incolumità.
Ayaan non è l’unica donna in fuga, ce ne sono tante come lei. C’è Marjanne Satrapi, iraniana, che già vive a Parigi, i suoi fumetti sono il demonio in persona per gli ayatollah, ma il suo Persepolis è diventato un film che ora punta all’Oscar «anche se in Iran forse non tornerò mai più». C’è Shabanna Rehmann, cabarettista, pakistana, rifugiata in Norvegia, dove i mullah del posto le scrivono sui muri tutto il loro odio. Ma lei, che usa il burka come costume di scena, se la ride: «Senza i mullah non avrei mai fatto carriera così...». C’è Deeyah, metà afghana e metà pakistana, che fa la cantante, la chiamano la Madonna musulmana e vive per l’Europa circondata da guardie del corpo. Gliel’hanno già giurata: «Ma ci vuol altro per spaventarmi».
E poi Sania Mirza, tennista, indiana come Taslima Nasreen. Timida, miope con la coda di cavallo e l’anellino alla moda al naso, ma con un carattere d’acciaio. Ha appena deciso che non giocherà mai più in patria.

Un piede appoggiato per caso accanto alla bandiera indiana le è costato l’accusa di vilipendio e il rischio galera. I suoi vestitini corti, la sua passione per la musica hip hop, i suoi spot tv l’avevano già condannata alla fatwa. Adesso ha risposto con un rovescio. A tutta mano, di quelli che lasciano il segno.

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