«Vai e attacca!». Mario Paternostro entra nella redazione genovese de Il Giornale nel dicembre del 1976 e riceve dal direttore Luigi Vassallo questo simpatico e aggressivo slogan.
«Eravamo un gruppetto di giornalisti, possiamo dire, d'assalto - ricorda - perché, non dimentichiamo che, da un anno, Genova aveva una giunta di sinistra con sindaco Fulvio Cerofolini. Quindi il nostro compito era quello di attaccare, attaccare, attaccare».
Com'era allora lo scenario politico della città?
«Come ha già ricordato Franco Manzitti, era una città tutta di sinistra. Inoltre anche il Secolo XIX con Piero Ottone si era spostato sulla sponda sinistra e noi quindi eravamo l'unica voce dei moderati, anche se ci chiamavano tutti "fascisti"».
Ma com'erano i rapporti con gli avversari politici?
«Nonostante avessimo una posizione contraria, nascevano però anche amicizie con la sinistra. Ricordo i buoni rapporti, oltreché con il sindaco, anche con persone quali Monteverde, Castagnola, Lovrano Bisso e il sindacalista Carlo Mitra».
Ma il vero PCI da chi era rappresentato?
«Ricordo che i due più arroventati, anche se divennero poi amici di opinione, erano Roberto Speciale, allora un giovane segretario della federazione comunista e Graziano Mazzarello, anche lui uomo forte del PCI».
La concorrenza giornalistica era molto forte
«Certamente, c'era il Secolo XIX, poi altre testate e quindi il compito nostro, piccola ma agguerrita formazione, era quello di contrastare il più possibile. E ricordo che, con Merani e gli altri colleghi ci divertivamo a dare "buchi" ai nostri avversari».
I grandi attacchi contro chi avvenivano?
«Ricordo in particolare due assessori contro cui avevamo frecce acuminatissime. Uno era Attilio Sartori, assessore alla cultura, rosso anche di capelli, che però ritengo sia stato uno dei migliori intellettuali della sinistra a Genova, l'altro era Cavallin, assessore alla sanità, che aveva sposato in pieno la legge Basaglia per cui si dovevano chiudere tutti i manicomi. Mi ricordo che Vassallo urlava: "Ma se ci sono i matti dove dobbiamo metterli se non nei manicomi?" e Genova ne aveva ben due, Quarto e Cogoleto».
C'era però anche l'opposizione politica in città
«Certo, c'era la DC e il gruppo liberale formato dai cinque cavalieri dell'apocalisse liberale, che erano Gustavo Gamalero, Alfredo Biondi, Cassinelli, Valenziano e Viziano. In Provincia ricordo sempre Mauro Vittori, che era anche un grande gallerista e che è purtroppo mancato da tempo, e Gianni Bonalumi. La Democrazia Cristiana aveva tra i suoi uomini di punta Bruno Orsini e Giancarlo Piombino».
E in porto?
«In porto i problemi non mancavano, ricordo in particolare la grande opera di Rinaldo Magnani, che fu certamente uno dei più significativi presidenti della nostra portualità. Proprio con questi personaggi, nonostante noi fossimo oppositori, si era stabilito un buon rapporto. Per cui, se devo essere sincero, quello vissuto da me è stato un periodo politicamente molto stimolante».
Ricordi particolari?
«Tanti, ricordo il grande bancone della sede di via Brigata Liguria, dal quale noi facevamo un po' tutto, compreso il ricevimento degli annunci pubblicitari, dei necrologi, dei contatti con i già numerosi lettori; ricordo il caffè che ci portava il barman del bar Cavo di fronte a noi, ricordo la mia fidanzata che mi aspettava ansiosa fino a tarda notte. E purtroppo ricordo anche quel colpo di pistola che infranse i vetri della nostra sede in quegli anni definiti "di piombo"».
Già, le Brigate Rosse
«Certamente erano quelli gli anni più terribili, proprio perché Genova era la culla delle Brigate Rosse e anche noi avevamo, posso dirlo, una certa paura per quello che stava accadendo. Manzitti era in particolare il cronista dei terroristi, ricordo che erano i mesi in cui venne gambizzato Montanelli e poi il direttore del Secolo Vittorio Bruno. Tempi davvero duri ma vissuti da parte nostra, debbo dirlo, con grande coraggio».
Tu hai avuto in quegli anni anche un'esperienza radiofonica.
«Sì, il Giornale aveva iniziato una collaborazione con una sua radio, la storica Radio Genova Sound, quindi io venni spesso dislocato alla radio per tutta l'area dell'informazione insieme a Ermes Zampollo. Mi dividevo quindi fra radiogiornali e carta stampata: non ti dico l'impegno quotidiano quasi totale per
la nostra causa. E fu proprio in quegli anni, debbo riconoscerlo, che mi formai professionalmente, sia come giornalista della carta stampata che della radio. E poi anche, dopo diversi anni, della televisione».
Ma nell'aprile del 1978 te ne andasti anche tu al Secolo XIX.
«Sì, il quotidiano genovese aveva cambiato direzione, era arrivato Michele Tito e mi venne proposta l'assunzione. Ne parlai a lungo con Vassallo, il quale con grande onestà e correttezza, che erano due delle sue qualità principali, mi disse: "Pensaci, perché certamente per te è una grande occasione". E così decisi di trasferirmi sull'altra sponda».
In conclusione, quindi, la tua esperienza professionale al Giornale si può considerare abbastanza unica.
«Debbo riconoscerlo, come ho letto hanno detto anche gli altri colleghi di allora, sono stati anni decisivi per la mia formazione futura e non posso che ricordarli con grande piacere e anche con un po' di nostalgia».
Torneresti a quegli anni?
«Certamente sì, perché intanto imparai a essere un giornalista di battaglia, poi, ribadisco il divertimento e la soddisfazione nel dare "buchi" alle altre testate e infine quell'urlo dell'indimenticabile Vassallo "Vai e attacca", tutti momenti che hanno rappresentato un periodo sicuramente felice della mia vita».
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