E il dottore di Beslan si mobilita per i profughi

Nel 2004 fece da mediatore nella scuola assediata dai terroristi. Ora organizza l’assistenza ai rifugiati della guerra del Caucaso

C’è silenzio oggi a Tskhinvali. I bombardamenti sono cessati. Ma la pace è un’illusione. Il capoluogo della Ossezia del Sud, devastata dall’attacco georgiano, è una città fantasma. Chi non è morto è fuggito. Chi è rimasto vive ancora nelle cantine trasformate in bunker. E dopo le bombe e la diplomazia, rimane una catastrofe umanitaria, di cui i profughi osseti e georgiani sono il simbolo più imbarazzante. Un flusso totale che supera le 100mila persone.
Il professor Leonid Roshal, il mediatore umanitario nei più gravi attentati terroristici che la Russia abbia vissuto, lo sapeva già. È il 7 agosto e alle prime avvisaglie del conflitto caucasico riflette nella sua clinica di Mosca: «A breve ci saranno migliaia di persone bisognose di aiuto. Chi si occuperà di loro?». Deflagra la guerra. Due giorni dopo Roshal si «arruola» e parte per Vladikavkaz - nell’Ossezia del Nord, in territorio russo - dove fuggono gli osseti presi di mira dalle forze di Tbilisi. Va a vedere con i suoi occhi la situazione. A organizzare gli aiuti da inviare a quel popolo cui è «così affezionato», quel popolo «mite e talentuoso, ospitale e pacifico».
Roshal, 75 anni, è un illustre pediatra dell’Accademia medica di Mosca. Ma la fama deriva dal suo lavoro nelle zone più calde del pianeta, tra guerre e terremoti, sempre da volontario, sempre a fianco dei bambini. «Non importa di che nazionalità o religione». Nel settembre 2004, sono gli stessi sequestratori asserragliati nella scuola di Beslan, Ossezia del Nord, a chiedere che sia lui a mediare con le autorità russe. Aiuta i feriti. Non riesce, però, a portare l’acqua ai «suoi bambini», costretti per sopravvivere a bere la propria pipì. Non riesce a evitare il tragico epilogo. In Cecenia, il suo impegno già nel primo conflitto (1994-’96), gli vale il rispetto e la fiducia della popolazione. E anche dei 42 terroristi che nell’ottobre 2002 irrompono nel teatro Dubrovka di Mosca, facendo oltre 800 ostaggi. Il professore è una delle sole cinque persone, autorizzate a entrare nel teatro. Riesce a convincere il commando a rilasciare gli ostaggi più deboli, tra cui i bambini.
A Vladikavkaz Roshal si è fermato solo un giorno, ma sul posto i membri del suo staff sono già a lavoro a fianco dei colleghi osseti. Ha visitato ospedali e parlato con i bambini. Quando gli domandi che storie raccontano il dottore è lapidario: «I bambini della guerra non hanno storie da raccontare, sono muti. Se gli chiedi cosa è successo iniziano a piangere». Sono poco più di cento al momento, ma se ne attendono molti di più. Solo tre giorni fa i bus russi hanno iniziato a percorrere la strada da Tskhinvali a Vladikavkaz, fino ad allora bloccata. I bambini «per lo più soffrono di otite e bronchite, perché sono stati per giorni nascosti sotto terra, senza aria, senza cibo, al freddo, senza medicine». Alcuni sono arrivati senza i genitori. «Il problema - continua il medico - è che (nel capoluogo sudosseto) l’ospedale è stato distrutto e i dottori rimasti sono costretti a lavorare sotto terra, senza acqua, elettricità, con la paura di un nuovo attacco. Per me sono degli eroi». Le bombe hanno ridotto in macerie anche scuole e l’università cittadina.
Mosca ha gridato al «genocidio».

Per Roshal «siamo davanti a un “quasi genocidio”. La Georgia ha sparato sulla sua popolazione, senza scrupolo. Io amo questo Paese, ho tanti amici lì, ho parenti a Tbilisi, ma davvero oggi non capisco la follia del loro governo».

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