Politica

E i cristiani maroniti insorgono: «Questa non è la nostra guerra»

Jocelyne, l’ex “sorella mitra”: «Morti e distruzioni faranno dimenticare alla gente le responsabilità degli Hezbollah»

Luciano Gulli

nostro inviato a Beirut

«Questa non è la nostra guerra», dicono i cristiani maroniti che nelle loro chiese di Junieh accendono candele al Sacro Cuore di Gesù e recitano il rosario invocando la Beata Vergine Maria perché tutto questo finisca presto. «Che c’entriamo noi con le strategie degli Hezbollah»?, ripetono gelidi i sunniti che hanno in mano le redini del commercio nella vecchia città fenicia, puntando il dito sulla Siria e sull’Iran, i grandi sobillatori. Ma è quasi impossibile trovarne uno disposto a dire il fatto suo allo sceicco Nasrallah e alle sue milizie.
Non bastano neppure 23 tonnellate di esplosivo che all’ora di cena distruggono un bunker dello sceicco, nel sobborgo meridionale di Bourj El Barajneh, per smuovere un’opinione pubblica violentemente ostile a Israele e schierata, giocoforza, con chi difende il territorio nazionale.
«Nessuno che abbia un minimo di dignità e un po’ di senso del ridicolo può chiederci oggi di essere con Israele contro gli Hezbollah. I due soldati israeliani rapiti dagli uomini dello sceicco sono un pretesto. Non si organizza un’operazione militare di questa portata in due giorni o in una settimana. Questo è un attacco premeditato, volto a ridisegnare il panorama della regione e dare una lezione alla Siria e all’Iran. Noi libanesi siamo lì, a fare da lavagna mentre si impartisce la lezione». Mohammed Sammak, consigliere del Gran Mufti Mohammed Kabbani, passeggia nel suo studio disegnando un’ellisse che va da una foto di papa Wojtyla a un’immagine che lo ritrae accanto all’ex presidente Rafic Hariri, assassinato il 14 febbraio 2005, di cui Sammak era amico e portavoce. Dalle finestre del suo studio, non lontano dal lungomare, si vede la lancia dei marines americani che fanno la spola tra la spiaggia e la nave da trasporto “Nashville” imbarcando grappoli d’americani che se ne vanno. Segretario generale del Comitato per il dialogo cristiano-musulmano, Mohammed Sammak è un sessantenne che non si fa più illusioni. «Ne ho viste tante, sa? Ero qui nel ’78, nell’82, nel ’93, nel ’96. Questa è la quinta guerra che Israele scatena contro il Libano. E come sempre, noi facciamo da ring fra Israele e la Siria. Stavolta, però, il pretesto è ancora più curioso che in passato. Si pretende, a Gerusalemme, che i libanesi ringrazino gli israeliani perché stanno facendo il lavoro che sarebbe toccato a noi: disarmare gli Hezbollah. Come se non conoscessero, a Gerusalemme, le formidabili pressioni cui il governo libanese è sottoposto da parte di Damasco e di Teheran».
Resta il fatto, osservo, che il governo libanese aveva promesso alla comunità internazionale, oltre un anno fa, di estendere la sua sovranità su tutto il territorio nazionale…
«E i rappresentanti di Hezbollah, che siedono in Parlamento, si dissero d’accordo. Ma ci sono due Hezbollah. E la seconda nega di essere una milizia, pretendendo di essere un movimento di resistenza. E in questo senso hanno ricevuto e ricevono appoggio finanziario, morale e politico da un settore cospicuo di partiti politici e confessionali: dal partito Baath ad Amal, dal Social Syrian Party fino ai cristiani maroniti di Marada, il partito di Suleyman Franje. Come vede, non è una questione facile. Ma dobbiamo risolverla da noi, senza l’aiuto, per così dire, degli israeliani».
«I morti civili e le distruzioni indiscriminate di Israele stanno facendo dimenticare alla gente le responsabilità di Hezbollah, che pure ci sono», ammette anche Jocelyne Khoueiry, direttrice di un’organizzazione per i servizi sociali e culturali intitolata a Giovanni Paolo II. Durante la guerra civile, fra il ’75 e l’85, Jocelyne era una specie di “sorella mitra”. Dieci anni in prima linea, col suo kalashnikov o il suo M 16, con le “Forze libanesi” di Bashir Gemajel, contro palestinesi e siriani. E se dovesse impugnare ancora una volta il mitra, «contro quelli che già oggi sono uno Stato nello Stato», questa cinquantenne bella e salda come una roccia lo rifarebbe. «Per esempio, se Hezbollah pretendesse di instaurare, un giorno, un regime filo iraniano. Ma non accadrà, perché i cristiani del Libano non arretreranno di un passo. Oggi, purtroppo, le milizie dello sceicco Nasrallah rappresentano tutto il Libano. Non è più possibile disarmarle, dopo che per 15 anni sono state incoraggiate nel loro ruolo da tutti i governi che si sono succeduti. Ma questo è il risultato di cinquant’anni di responsabilità dell’Occidente».
Anche l’ex presidente Rafic Hariri, ricorda Jocelyne, ebbe parole di elogio (lui che poi finì nel mirino di Damasco) per la resistenza islamica opposta da Hezbollah nel sud. «Come si può pensare, ora, di disarmare un movimento nel quale si riconosce il 40% della popolazione?»
L’unica voce stonata, fra i politici libanesi, è come sempre quella del leader druso Walid Joumblat, che accusa l’asse tripartito formato dal presidente siriano Assad, da quello iraniano Ahmadinejad e dal presidente libanese Emile Lahoud, filo-siriano. E irride lo sceicco Nasrallah, che pretende di scatenare la battaglia di tutto il mondo musulmano («che i libanesi lo vogliano o no»). Lo stesso aveva fatto anche il premier Fuad Siniora, che in un’intervista aveva chiesto al mondo «aiuto per disarmare Hezbollah».

Tranne poi fare marcia indietro.

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