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E i generali di Ankara non vogliono fare passi indietro

Andrea Nativi

I generali turchi si sentono i custodi della laicità e della unità della moderna Turchia e sono pronti ad intervenire nella vita del Paese per fronteggiare ogni minaccia, reale o percepita, ai fondamenti dello Stato come hanno già fatto in passato. Piaccia o meno all’Unione Europea e alla comunità internazionale. Basta leggere le dichiarazioni del capo di stato maggiore della difesa, il generale Ethem Erdagi, che ancora ad aprile ribadiva come le vere minacce per il Paese vengano dal fondamentalismo religioso, dal separatismo curdo e dalla criminalità organizzata, aggiungendo che i militari sono guardiani attenti del secolarismo sancito dalla Carta costituzionale.
Parole ribadite ruvidamente dal capo dell'esercito, generale Yasar Bukuyanit, che la scorsa settimana ha sostenuto che «nessuno deve dimenticare che chi ha fondato la Repubblica è anche capace di proteggerla». Bukuyanit ha anche rigettato le critiche rivolte dal Parlamento europeo alla eccessiva aggressività delle operazioni militari turche condotte nei confronti della guerriglia curda, facendo notare che dopo l'11 Settembre tutti i Paesi occidentali stanno usando la mano pesante nei confronti dei terroristi. E i guerriglieri del Pkk sono considerati dalla stessa Unione Europea e dagli Usa alla stregua di terroristi.
L'Unione Europea fin dall'inizio delle discussioni con Ankara ha chiesto che gli uomini in uniforme rientrassero nei ranghi, che si sottoponessero chiaramente alle autorità civili e riducessero la loro influenza sulla vita politica e economica. Con la dovuta prudenza, le riforme sono state avviate e, ad esempio, il ruolo e i poteri del potentissimo Consiglio per la Sicurezza Nazionale sono stati ridimensionati. Un secondo intervento ha cercato di contenere l’autonomia di cui tradizionalmente godono i militari nell'amministrare i "propri" fondi. Inoltre la crisi economica degli scorsi anni ha portato ad una contrazione della spesa per la difesa, passata dal 5% del prodotto interno lordo prima del 2003 al 3,3% di quest'anno.
Ma secondo molti analisti i militari accettano questa trasformazione malvolentieri ed è probabile che in molti casi le riforme abbiano un effetto più formale che sostanziale. Il contrasto strisciante tra autorità politiche e militari è ancora più evidente quando si tratta di definire la nozione di "fondamentalismo islamico", che in teoria entrambi condannano: i militari hanno ripetutamente lasciato intendere o hanno affermato esplicitamente che lo stesso partito di ispirazione islamica del premier Recep Tayip Erdogan, l'Akp, in effetti è promotore del fondamentalismo religioso.
Ai militari non fa neanche piacere una ritirata o un cedimento eccessivo sulla questione di Cipro, per non parlare di un eventuale mea culpa a proposito del genocidio armeno.
In ogni caso nei colloqui tra Turchia e Ue, così come sulla scena interna del Paese, è in atto un gioco delle parti: ufficialmente la Ue vuole che i militari stiano al proprio posto, ma certo non dispiace che i generali impediscano di cedere alla crescente pressione islamica. E lo stesso premier può costringere le frange più estremiste delle formazioni politiche islamiche alla moderazione agitando lo spauracchio del colpo di Stato.

Se l'Europa chiudesse le porte alla domanda di integrazione di Ankara i contraccolpi potrebbero essere davvero pericolosi.

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