E l’America inventa il procacciatore di lavoro

Poco più di un anno fa in Colorado si suicidò Hunter Thompson, l’inventore del Gonzo journalism, quella specie di ultra-Tom Wolfe secondo il quale la realtà andava osservata e narrata da un punto di vista narcotico e alcolico, per coglierne aspetti di verità altrimenti preclusi per sempre. Negli ultimi tempi, Thompson ebbe a lamentarsi che il mondo non era più «flippato» come un tempo e che i fuori di testa si andavano esaurendo.
È all’eccentrico collega Thompson che la giornalista e saggista Barbara Ehrereich ha rivolto il suo pensiero, in una delle tante interviste concesse per raccontare il suo ultimo libro-inchiesta sul mondo del lavoro statunitense, Bait and Switch. The Futile Pursuit of the Corporate Dream, pubblicato negli Usa alla fine del 2005 e qualche settimana fa in Gran Bretagna da Granta: «Hunter, avresti dovuto venire con me nel cuore dell’America e della sua corporate business culture. Tutto là è fuori di testa».
La conoscevamo già per Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo (pubblicato in Italia nel 2004 da Feltrinelli), inchiesta realizzata nel 1998 che ha reso Barbara Ehrehreich famosa in tutto il mondo del lavoro occidentale, con un milione di copie vendute. Si trattava di un resoconto assolutamente antiretorico sull’America dei bassi salari, quelli percepiti dalle cameriere, dalle donne delle pulizie, dalle commesse. La Ehrereich si era imbarcata nella metodologia giornalistica “vecchio stile” della presa diretta: per due anni aveva lasciato casa, carte di credito e status di intellettuale per condividere i pasti nei fast food e gli arredi squallidi, ma anche la grande solidarietà e senso dell’umorismo dei blue-and-pink-collar americani.
Ora ci ha riprovato con Bait and Switch, espressione gergale che più o meno vuol dire «specchietto per le allodole» (bait and switch advertising è la pubblicità ingannevole). Con lo stesso format da reality, racconta i dieci mesi passati a cercare un impiego nel mondo dei white-collar, ovvero coloro che hanno fatto tutte le scelte giuste, dal college in avanti, per costruirsi un curriculum degno di attenzione da parte delle multinazionali ed essere accolti nel mondo del lavoro di livello che in America, come si sa, è un grande sistema assolutamente flessibile che permette di cambiare posto quante volte si vuole ad un’unica condizione: non rimanere mai disoccupati. Perché disoccupato vuol dire «fuori dal giro» in un paese dove la parola d’ordine è network.
Stavolta però, le è andata male. Cameriera sì, ma consulente in pubbliche relazioni no: Barbara Alexander - questo lo pseudonimo assunto dalla Ehrereich per l’inchiesta - a trovar lavoro qualificato non ci è riuscita. Nonostante abbia “liftato” il curriculum, rendendolo aderente al profilo che voleva ricoprire. Nonostante in fondo una saggista e giornalista di Time, Harper’s Magazine e New York Times Magazine sia più simile ad una pierre che ad una commessa dei grandi magazzini Wal-Mart. Vi starete chiedendo allora di che cosa parla questo libro. Ma di tutti quei flippati che nel cuore dell’America hanno trovato lavoro come procacciatori di lavoro altrui, ovvero quei bait and switch da cui difendersi quando il panico che anni e soldi di college e università siano anni e soldi buttati, ti assale alla gola a tal punto che ti riduci a credere di aver davvero bisogno di un «addestratore alla carriera« o di un «consulente di immagine«.
Immaginate perciò la faccia della Ehrereich quando Morton, il suo primo career coach, le ha messo di fronte bambole di un metro con i personaggi del Mago di Oz e una riproduzione in plastica di Elvis. Giusto per spiegarle che tra lei e la sua vera personalità aziendale c’era la stessa somiglianza che tra l’Elvis reale e la sua bambola. Immaginate la reazione incredula di fronte al «consulente di immagine» che per 250 dollari le prometteva di trasformarla in un perfetto modello da azienda: «Avevo una spilla sul risvolto della giacca. L’unica spilla che abbia mai avuto, un regalo. Era molto “conservatrice” come spilla: semplice, rotonda, in argento. Il consulente disse che non era corporate. Ci sono persone disoccupate perché indossano la spilla sbagliata».
Per non parlare dei boot camp, luoghi di addestramento creati sull’esempio dei campi reclute dell’esercito, in cui gli aspiranti impiegati trascorrono giorni in full immersion nella speranza di uscirne idonei per un fantomatico colloquio o incarico. Secondo l’inchiesta Ehrereich si tratta di un mondo a parte, mistico, concentrato nel territorio della Bible Belt, in cui il messaggio diffuso è che l’universo si può controllare grazie a pensieri e attitudini e che se sei in contatto con la divinità, sei stato salvato e allora troverai lavoro. Spesso dietro questi incontri non c’è nemmeno una vera chiesa, racconta Bait and Switch, ma un gruppo di uomini d'affari “cristiano” che offre il servizio al chiaro scopo di fare proseliti.
Il vero rischio tuttavia, secondo la Ehrereich, sono i propri fantasmi: «Quando sono mesi che cerchi un lavoro è ovvio che cominci a chiederti: Che cosa non va in me? Spesso queste paure sorgono anche quando il posto ce l’hai già. È il motivo del successo di libri come Chi ha spostato il mio formaggio?, scritti da pseudo-guru del “marketing della personalità” che le multinazionali comprano in centinaia di copie perché i dipendenti possano discuterne in gruppo». Una delle ragioni dello scollamento tra valori aziendali e candidati all’assunzione è, secondo l’inchiesta, il declino delle dot.com, le imprese esplose con Internet. Negli anni Novanta, le dot.com introdussero come criterio meritocratico la creatività personale, anche a livello di immagine. Quando la bolla virtuale scoppiò, la corporate America tornò a bandire ogni forma di eccentricità e a riconsiderare uniformità e conformismo come principali risorse invisibili. Di qui anche il recupero dei test attitudinali come forma principale di selezione: dal famoso Myers-Briggs al Test del Culto della personalità a quello di Enneagram, basato sul sufismo, la Ehrenreich si è ovviamente sottoposta a tutto pur di essere scelta con risultati davvero sorprendenti tipo «la capacità di scrittura non appartiene alle sue competenze».
Il paragone con un fanatico dell’inchiesta in presa diretta come Michael Moore a questo punto è d’obbligo. Ma la Ehrereich, che per inciso ha già deciso di dedicare la prossima inchiesta ai docenti universitari a contratto, non ne vuole sapere: «Apparteniamo davvero a due categorie diverse.

Lui è, come dire, molto più “estroverso”. Credo che al mio posto si sarebbe piazzato davanti alle aziende con un megafono e il suo curriculum in formato gigante e avrebbe picchettato fino ad ottenere un colloquio di selezione».

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